Una delle più grandi fosse comuni d’Europa. Ai piedi del Tonale, in una buca di circa 12 metri quadrati, giacciono ancora i corpi di decine di soldati austriaci della prima guerra mondiale. “Ritrovati” e dimenticati.
A raccontarlo è Sergio Boem nel libro “Sui prati del Tonale 94 stelle alpine”: un lungo lavoro di ricerca – circa 300 pagine – il cui l’autore gardesano (classe 1964, ricercatore, alpinista e alpino) parla del nonno Ubaldo Ingravalle e ricostruisce il cammino del battaglione “Valcamonica” dopo il suo martirio sul Grappa e il riposo negato in Valtellina, fino all’arrivo al Passo del Tonale dove, solo 24 ore dopo, i soldati italiani subirono il durissimo assalto dei reparti imperiali. Largo spazio nel testo, è dato anche alle vicende personali e alle emozioni di alcuni di quegli sfortunati alpini, nonché delle loro famiglie, storie descritte e tratte da dati certi, ricerche approfondite e testimonianze.
Uno dei passaggi chiave del libro è proprio quello della fossa comune al Tonale: un ritrovamento senza eguali in Europa negli ultimi decenni. In realtà – racconta Boem – alle pendici meridionali di Cima di Cady (pilastro laterale del valico alpino del Passo del Tonale e confine regionale), a circa 2100 metri di quota, si trovavano ben due fosse comuni. E’ stata scoperta quella sul versante Trentino, mentre l’altra, presumibilmente a poca distanza e situata in Lombardia, è ancora da individuare. La fossa si trova in una buca creata da un grosso calibro e di circa 12 metri di diametro, probabilmente un calibro 305 austriaco dei due pezzi d’artiglieria che bersagliarono per diverse ore la principale postazione contesa.
Il contesto è quello della cosiddetta “Operazione Valanga” (Unternehmen Lawine) iniziata il 12 e scatenata il 13 giugno 1918, quando gli austriaci fecero un tentativo di sfondare le difese italiane sul Passo con 40.000 uomini, per irrompere prima in Val Camonica e in Valtellina poi. Obbiettivo finale dell’azione: Milano.
I corpi sepolti nella fossa comune del Tonale (che Boem potrebbe aver individuato, ma che non è stata ancora oggetto di scavi da parte delle autorità) sono quelli 94 soldati austriaci di diversi reparti, comprese Compagnie d’Assalto e Compagnie d’alta montagna composte da Guide alpine, con 25 battaglioni di fanteria al seguito. Non risultano caduti italiani in quelle fosse (furono oltre 40 quelli del “Valcamonica”), perché raccolti nella serata del 13 e nella giornata del 14 giugno. Quelli austriaci invece, recuperati davanti alle nostre trincee, vennero sepolti la notte seguente da un plotone di un reparto alpini appena giunto in linea: il “Val Tanaro”. L’ordine venne emanato dal Comando stesso del “Valcamonica” (Maggiore Picella) che aveva il comando tattico sull’intera montagna.
Il Battaglione “Valcamonica”, 5° Reggimento Alpini, era un reparto composto da arruolati tendenzialmente lombardi, compresi tra i 25 e i 39 anni. Eebbe il numero di caduti tra i più alti tra tutti i 16 Battaglioni di quel reggimento: 203 con 723 feriti e purtroppo, 583 dispersi.
Il nonno dell’autore – Ubaldo Ingravalle, classe 1886 – era romano, non aveva fatto il militare e mai aveva camminato nella neve. Dopo quella esperienza e colpito dalle caratteristiche di affidabilità e tenacia di quei montanari, decise di raffermarsi nell’Esercito e non tornò più nella capitale; pluridecorato in quella guerra, raggiunse poi il grado di Colonnello nella Divisione Alpina “Julia” e morì a Gorizia nel 1950.
“Sui prati del Tonale 94 stelle alpine” 1918-2021 – Il racconto dell’autore
Alcuni particolari della nostra storia, anche di quelle della nostre famiglie, giacciono spesso dimenticati in polverosi faldoni, antichi documenti depositati in lontani archivi o adagiati da decenni su delle alte scansie. Attendono pazienti e nella penombra, che un ricercatore curioso o un anniversario qualsiasi, gli dia l’occasione per tornare finalmente alla luce.
La gran parte non hanno molto da raccontarci, altri stimolano invece dubbi e narrano di misteri mai svelati.
Tra i tanti, quelli custoditi nell’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, non sono certo un eccezione, anche se spesso sono gli unici che possono trasmettere qualche emozione in più. Sono stati scritti infatti in tempi senz’altro tragici, alla luce di una fioca candela e in un umido riparo nella roccia. La grafia alcune volte appare incerta e tremolante di chi è esposto da ore alla paura, quanto alle intemperie e avverte il freddo pungente che intorpidisce le dita.
Sono le comunicazioni che si scambiavano i nostri nonni durante la Grande Guerra, rapporti e fogli di servizio, una montagna di carte sbiadite che di solito sono composte da brevi righe e richieste che, alcune volte, sono più simili a delle suppliche. Chiedono un supplemento di cibo per degli uomini arroccati su una cima, isolati da giorni di nevicate ininterrotte o un invio suppletivo di coperte di cui soffrivano sempre la mancanza. Forse sono solo degli ignoti brandelli della grande Storia, ma che letti oggi possono apparire delle piccole e preziose testimonianze di un evento davvero sconvolgente.
Scarabocchi da interpretare e impressi su poveri foglietti di fortuna che recano spesso le impronte di dita segnate dal fango delle trincee o delle gocce che cadevano dalla volta di spelonche sugli improvvisati scrittoi: per lo più cassette di munizioni o dei luridi ripiani.
Potrà sembrare strano, ma alcune contengono oltretutto dei particolari o delle vicende, che i protagonisti della nostra Storia nazionale non hanno mai riportato altrove e nemmeno raccontato ad altri, perché caduti in azione o perché testimoni di fatti che hanno poi volutamente dimenticato. E’ proprio in questo modo che sono incappato in questa incredibile ritrovamento e che mi risulta non abbia uguali negli ultimi 80 anni.
Un tempo, per cercare di ricostruire i tre anni della sofferta guerra di mio nonno Ubaldo Ingravalle, ho frugato a lungo tra documenti e libri, come in memoriali e sbiadite lettere, ma senza troppa fortuna.
La storia ha infatti tramandato ben poco di quel suo antico reparto: il Battaglione Alpino “Valcamonica” e mai ho trovato nulla che superasse complessivamente le quattro righe di inchiostro. Vicende del passato e di un paese già con poca memoria, storie di umili testimoni che tornarono poi sui loro monti e oggi ormai tutti scomparsi, difficile dunque ricostruire in qualche modo, le loro sofferenze e i sacrifici anche se gli appartenenti a quel valorosa compagine furono molte migliaia.
Non bastava certo contattare dei distratti discendenti o ripercorrere gli antichi solchi delle trincee e dormire nelle loro grotte, alla caccia di notizie e sensazioni antiche, pur facendo anche questo.
Era indispensabile risalire all’originale narrazione di quelle vicende così poco citate, pescando nell’unico documento ufficiale esistente e depositato nell’Archivio Storico dell’Esercito Roma. Ogni battaglione o reggimento infatti, doveva tenere un diario giornaliero che, durante una guerra, diventava il “Diario storico” del reparto. Un’agenda da tenere sempre aggiornata e da compilare con le novità del giorno, il numero degli ammalati o il tempo atmosferico e la temperatura.
E’ in questo modo che siamo arrivati ad aprire quel loro antico libro, ritrovandovi poi dentro gli accadimenti e le tribolazioni di mio nonno, ma soprattutto di tutti quei maturi montanari che con lui vennero richiamati alle armi e ad una guerra mondiale. Non furono degli uomini proprio fortunati, quelli, visto che furono inviati sulle montagne e sui fronti più duri della Grande Guerra: Monte Rombon, il Cauriol, il Monte Grappa e infine i pendii del Passo del Tonale.
Tra le oltre 3000 pagine che raccolgono la vita di quel reparto alpino, dal 1915 al 1921, ho incontrato con emozione, anche la scrittura di mio nonno allora tenente e Aiutante maggiore del Comandante di quel reparto alpino. In quel resoconto militare redatto con una grafia antica, alcune volte pareva di intravedere anche il campo della lotta, la neve e la lontana cima, in una visione quasi “in presa diretta” vista dai parapetti di una trincea.
Abitualmente gli scriventi in quel documento ufficiale però, utilizzavano un linguaggio conciso e a tratti apparentemente freddo; in fondo quello era un resoconto militare, un compito burocratico da assolvere la sera e certo senza alcuna ambizione letteraria.
Raramente in quei verbali si incontrano notizie non vagliate o peggio, delle impressioni personali riguardo ai caduti ad esempio, se non il loro cospicuo numero e molto raramente si parla dell’ultima loro dimora sulle cime più impervie. Inutile dire che mai sono citate le sepolture degli avversari caduti davanti alle nostre linee, dei particolari militarmente certo inutili ancor più se riferibili a quegli ostici soldati di un Impero nemico da sempre dell’Unità nazionale…
Nulla di strano in fondo, era semmai necessario in quelle pagine parlare dei soldati rimasti vivi e soprattutto badare alla loro futura e difficile sopravvivenza su quelle aspre vette, in inverni che furono tra i più duri del secolo.
Eppure, durante la lettura di alcune pagine drammatiche di fine guerra, mi balzarono invece alla vista i particolari e continui richiami di mio nonno, ad due gigantesche fosse comuni colmate dai corpi nemici, dopo la cruenta battaglia sul Passo del Tonale il 13 giugno del 1918.
Un combattimento che vide duramente impegnato il “Valcamonica” in 14 ore di lotta furibonda e in cui riuscirono a respingere l’assalto degli austriaci impegnati nell’ “Operazione Valanga”, un’irruzione tentata da due divisioni iperiali su quel valico stradale e che preannunciò di sole 48 ore, l’assalto al Piave nella decisiva battaglia del “Solstizio”.
In quelle sere successive, la necessità di dare una sepoltura pur sommaria ai corpi di quei nemici caduti uno sull’altro, era cosa probabilmente auspicata da tutti e anche una urgente necessità. Certamente i motivi di igiene e di sicurezza della prima linea, erano importanti, ma militarmente lo era ancor più ciò che la battaglia aveva distrutto o reso inservibile, i pericoli e le drammatiche carenze di quel nostro reparto sfiancato dal combattimento.
Eppure il nonno in quelle righe, torna invece più volte su quelle fosse colme di soldati austro-ungarici, sino a indicarne con precisione il luogo prescelto e addirittura le circostanze del seppellimento. A tratti sembra che il suo fosse quasi un promemoria o un suggerimento, un indicazione per chi, nel dopoguerra, si sarebbe occupato di quella doverosa opera di riesumazione.
Altre ragioni ai miei occhi, non parevano proprio essercene; certo un peso lo avrà avuto senz’altro la pietà umana o il rammarico, oppure il riconoscimento del loro indiscutibile valore: quello che mise pericolosamente in bilico il fronte che gli era stato affidato. Non lo possiamo sapere oggi con assoluta certezza.
In ogni caso tutto quell’assillo, cento anni dopo insinuò un dubbio in uno dei suoi nipoti e così quell’antico e quel dimenticato resoconto, restò aperto su quelle misteriose pagine.
Cercai a lungo qualche notizia circa quel gigantesco sepolcreto, anche per sapere quale fosse il luogo dove quei martoriati corpi erano poi finiti, ma con mio stupore senza alcun esito. Volevo in fondo solo sapere quando, quel desiderio del nonno indovinato tra le righe, fosse stato esaudito e dove quei ragazzi europei ora riposavano finalmente in pace.
Ancor più incuriosito, continuai con caparbietà le ricerche di archivio presso le biblioteche o interpellando assonnati uffici pubblici, ma di quelle fosse comuni sul Tonale nessuno aveva davvero mai sentito parlare. Feci anche di più, pensando che su quel pendio tempestato dal fuoco di oltre 600 pezzi d’artiglieria, era forse possibile ritrovare quella buca svuotata nel dopoguerra e mi recai quindi nuovamente lassù in visita.
Mi accorsi che nessuna aveva quella caratteristica: tutte erano colme. Anzi, una in particolare aveva delle caratteristiche ben diverse da tutte le altre e ne restai stupito. Notai infatti che una vegetazione rigogliosa la coronava; una curiosa e inspiegabile ragione doveva essere certo alla base di questo particolare fenomeno naturale, che per la mia esperienza escursionistica, era rarissimo a quelle quote.
Comincia a pormi delle domande fino ad esserne allarmato, soprattutto perché quel luogo forse adibito ad una sepoltura momentanea, lo avevo già descritto in un precedente libro e con una dovizia di particolari fin troppo abbondante. Ero allora fermamente convinto che quei 94 corpi di cui parlava il nonno nel Diario, avessero poi trovato una sepoltura finalmente degna e altrove, in quel dopoguerra.
Tornai a indagare con un attenzione ancora maggiore ricercando qualsiasi notizia, fossero pure dei cenni negli archivi parrocchiali della zona o nei lontani Sacrari militari, ma senza nessun esito. Mai era stata segnalata sui giornali dell’epoca o nei documenti comunali, una traslazione di un così cospicuo numero di soldati pur ex nemici sui prati di quel valico.
Invitai ad una visita ed esponendo le mie allarmate perplessità, a studiosi e appassionati della zona, a note associazioni storiche, a musei, eppure i passi compiuti erano sempre millimetrici. D’altronde non c’erano certo delle prove tangibili, i miei erano solo dei sospetti e poi erano storie antiche e forse anche un po’ troppo macabre: a chi potevano interessare ?
Portai sul posto anche l’attento Soprintendente dei Beni archeologici del Trentino, temendo sempre più per il riposo inviolato di quelle tante e sfortunate salme.
Il dott. Nicolis, pur valutando le mie labili tesi e le poche testimonianze scritte, necessitava però di un’incarico affidatogli da un Ente pubblico per potersi mettere in moto. C’era da capirlo: non erano certo sufficienti i dubbi di un ricercatore dilettante e nipote inquieto, per attivare una macchina così costosa e complessa.
Tra ulteriori e dispendiose ricerche, denunce e segnalazioni anche a Stati e organizzazioni estere, passarono 4 anni dall’avvenuta pubblicazione di quel libro che poteva guidare dei malintenzionati nel luogo del riposo di tanti ragazzi. Nel malaugurato caso fossero ancora lì, giacevano infatti tra le tante dotazioni che si portarono appresso: elmetti e anelli, gavette o borracce, fucili e baionette, tutti oggetti che vanno a ruba sulle bancarelle dei mercatini o in rete, ambito premio per cercatori senza scrupoli.
Le preoccupazioni personali circa la loro solo presunta presenza e per l’incolumità dei corpi dunque restavano, ma i controlli che periodicamente facevo per alleviare almeno un poco i miei timori, erano sempre rassicuranti. Nonostante la discreta diffusione del testo, nessuno aveva notato quella vegetazione anomala su di un glabro pendio o aveva avuto notizia dei miei sospetti segnalati nei molti uffici.
Tutto bene dunque, anche se non mi era riuscito di attivare nessun saggio di scavo o una qualsiasi ricerca di archivio ufficiale, il luogo della presunta sepoltura appariva inviolata e questo fino all’estate del 2019.
Durante un ennesimo controllo trovai infatti, in quel settembre, degli evidenti segni di scavo negli antichi crateri creati dalle esplosioni sui prati del Tonale. Allarmato spostai la terra che qualcuno aveva già smosso e ritrovai, appena sotto due dita di terra (com’era già descritto sul Diario) brandelli e divise macerate e in seguito anche alcune ossa, ma soprattutto scoprii due teschi ormai privi del loro elmetto, di certo un prezioso bottino per uno scavatore dilettante.
Dopo aver già denunciato la possibile presenza di una fossa comune al Nucleo per la tutela del patrimonio culturale della Lombardia anni prima, ora era più che mai necessario avvertire la locale stazione dei Carabinieri che per altro e in modo solerte, si attivò per accertarne il contenuto. Segnalai la cosa anche ad altre istituzioni, ma non ai mezzi stampa, in attesa della messa in sicurezza di quel sito colmo di sventura e per il quale, tanto impegno avevo messo in campo .
In breve tutto ciò che occorreva per far partire le ricerche si arenò, certamente (così ci auguriamo) a causa della bufera virale che colpì il Paese e che ben altre priorità imponeva. Proprio l’immobilità imposta in quel periodo, mi dette però modo di stendere le righe di un nuovo testo e che solo ora mi accorgo, può probabilmente apparire molte cose e tra le più varie.
Un sasso gettato nel lago dell’indifferenza o una denuncia per una memoria negata, ma soprattutto credo sia una spinta e un moto di pietà per 94 valorosi ragazzi che sono stati dimenticati lassù da oltre cento anni, dopo il sacrificio del loro bene più caro.
Hanno certamente dato a lungo nutrimento ai fiori di quella china e forse ora forse possono dare respiro ad una antica e sofferta vicenda che pareva svanita già allora. Di quell’aspra battaglia in cui persero la vita in migliaia infatti, non ci sono testi specifici e nemmeno racconti che ne ricostruiscano l’importanza e il furore.
Ancor più il loro ritrovamento, sarà forse utile a riportare l’attenzione su quelle grotte cadenti e sulle trincee colmate di Serodine e del Cady, scavate in un inverno gelido e difese coi denti in un inferno di fuoco.
Si preparano infatti nuovi scavi e distruzioni lassù, questa volta da parte di impietose ruspe figlie di un progresso senza memoria. Sembra che un avveneristico progetto, con il beneplacito del Comune di Ponte di Legno, preveda prossimamente diversi piste, impianti di risalita, seggiovie e chalet in quella conca. Presto le cime devastate diventeranno parte di un paesaggio montano modellato dagli interessi di un turismo rapace e basato solo sul profitto.
Ci auguriamo che invece si trovino altre vie per portare benessere in quella valle, magari attraverso la valorizzazione di quei prati densi di storia, come del resto già fatto altrove, a testimonianza di eventi che videro i padri dei nostri genitori, affrontare sacrifici e sofferenze inenarrabili.
In parte sono anche questi dei loro messaggi, dei lasciti che vogliono spingerci a desiderare la pace e l’unità tra gli uomini, abbandonati da allora in un luogo devastato teatro delle loro sofferenze .
Portare al sicuro quei corpi martoriati, testimoni muti di un evento dimenticato, diventa allora un compito urgente e certo auspicato, un dovere morale innanzitutto e non solo dettato dalla pietà umana o religiosa, ma anche da un riconoscimento di quel loro terribile sacrificio.
Da parte mia, aggiungerei anche il coinvolgimento personale, visto che mio nonno su di loro guidò il fuoco dell’artiglieria e in quel reparto era un riconosciuto e abile tiratore scelto. Mi sono addirittura ritrovato a pensare, che se un mio avo li ha cacciati sotto terra, è doveroso che ora che il nipote li riporti alla luce per dargli la sepoltura che meritano. E’ un caso curioso della storia o forse solo un mio trasporto decisamente eccessivo…
In ogni modo e dal giorno di quel ritrovamento sacrilego e furtivo, quei 94 ragazzi rimasti giovani per sempre attendono che il loro riposo diventi protetto e definitivo, magari nei cimiteri del loro paese, se saremo così fortunati da riuscirne ad identificare qualcuno. Basterebbe infatti una medaglietta del battesimo o una piastrina rimasta leggibile, per dare infatti un nome ed un volto a degli sfortunati soldati e salvarli così da quelle fredde scritte impresse nei Sacrari militari: “Soldato Ignoto”.
Erano operai e umili contadini, studenti o impiegati, montanari o cittadini avevano un passato e speravano in un futuro ma, dopo una interminabile notte di angoscia, si lanciarono contro le linee presidiate dai nostri nonni e da essi furono fermati per sempre. Di quei ragazzi non più nemici, che seppellirono frettolosamente in una notte di freddo interrotta più che dall’alba, da una bufera di neve, condividevano le stesse pene e le medesime sofferenze, senza eccezioni di grado, nazionalità o di religione.
Oggi sono solo resti di uomini appartenenti ai popoli di un Impero scomparso, inviati lassù da obblighi morali o di legge, per lo più ungheresi e rumeni della regione del Benato. Salirono all’assalto di Cima di Cady senza raggiungerla, ma non riuscirono nemmeno a tornare più a valle.
Hanno riposato a lungo sulla loro montagna, prima di quel gesto sacrilego e, nell’anno delle celebrazioni del “Milite Ignoto”, vorremmo che quel desiderio espresso dal nonno e di certo condiviso dai suoi sofferti compagni, giunga finalmente al suo compimento.
Siamo infatti convinti che quelle frasi inedite, inusuali per un diario militare e così insistenti, siano come un messaggio infilato in una bottiglia e lanciata verso un futuro di auspicata riconoscenza, di fratellanza e basato su di una memoria comune finalmente condivisa.
Per quei ragazzi, mariti, figli o fratelli di qualcuno che li attese per decenni, è arrivato il tempo di avere finalmente una degna sepoltura, non più violata da cacciatori di reperti e avidi commercianti. Crediamo che in questo modo, anche coloro che furono artefici del loro destino, uomini a cui la storia mise in mano un arma, trovino così anch’essi la pace che meritano.
Autore: Sergio Boem gardesano, classe 1964 (nipote da parte di madre di Ingravalle) e alpino anch’esso, appassionato ricercatore e alpinista, è giunto oggi al terzo libro dopo numerose mostre e articoli sulla Grande Guerra e sugli uomini e donne del primo “900.
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