L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 45-46-47-48
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CAPITOLO XLV
Lo Sturmbannführer, più imbestialito che mai, era partito,
insieme al suo autista, per Brescia. Le sei SS, che
si era portato a Breno, vennero sistemate su uno di quei
carrelli usati per le verifiche delle rotaie. Agganciato a un
treno merci, che portava materiale delle ferriere Tassara, il
carrello con il suo carico erano partiti per Brescia.
Giunto nei pressi di Costa Volpino il capotreno, che si
era segretamente accordato con un gruppo di partigiani,
fermò il convoglio simulando un guasto.
Presi alla sprovvista, i militi vennero disarmati dai partigiani
che li avevano accerchiati. Sei mitra, sei machinepistole,
due mitragliatrici leggere ed una valanga di proiettili
cambiarono proprietario.
Fu identificata la SS che aveva torturato Fausto e che
aveva ancora nella tasca dei pantaloni il tirapugni sporco
del suo sangue, che l’uomo conservava quasi come un
trofeo. Fu fatto spogliare rimanendo in mutande e maglietta.
Gli fu legata una corda in vita e l’altro capo agganciato
al carrello. Il treno fu rifatto partire ad andatura
lenta e l’SS fu costretta a correre, a piedi scalzi, sulle
appuntite pietre della massicciata. Quando i piedi diventarono
delle masse informi e sanguinolente e l’uomo
stava per svenire, il treno si fermò, permettendo ai suoi
compagni di riprenderlo a bordo.
Lo Sturmbannführer, giunto a Brescia, si recò diretta-
mente al suo comando ove gli fu comunicata la revoca di
tutti gli incarichi che gli erano stati affidati e l’ordine di
prepararsi a partire per la sua nuova destinazione: il fronte
nord-occidentale.
“Uomini indegni come Lei” furono le ultime parole che
udì dal suo superiore diretto, “sono il grande problema
per l’invincibile Armata tedesca! Spero che al fronte si
potrà riscattare con una morte onorevole”.
Il superiore non fu buon profeta. Un’ora dopo lo Sturmbannführer
fu trovato nella sua stanza impiccato.
CAPITOLO XLVI
Fausto si svegliò dall’anestesia nel tardo pomeriggio.
Aveva una forte nausea e si sentiva a pezzi.
Le facce sorridenti dei suoi genitori e di don Pompeo gli
portarono un po’ di sollievo. Con la bocca ancora impastata
e con la pelle del viso che gli tirava tutta, farfugliò
un “Salve” chiedendo poi cosa gli fosse capitato. Evidentemente,
e per fortuna, lo shock gli aveva cancellato,
almeno momentaneamente, i ricordi.
Don Pompeo fu poco preciso per non disturbare il ferito.
Gli parlò dell’arresto, di qualche pugno che gli era
stato somministrato e, soprattutto, della liberazione e
dello smacco che i tedeschi avevano subito. Gli raccomandò
di stare calmo e di riposare.
“Ci sarà tutto il tempo per raccontarci nei particolari
quello che è successo” disse – e qualcuno dovrà anche
parlarti della tua faccia – pensò.
CAPITOLO XLVII
Lucia non aveva avuto tempo per pensare quale seguito
dare alla sua avventura bresciana e quali decisioni prendere,
distratta, come tutti in paese, da quanto successo.
Aveva, di sfuggita, ipotizzato di parlarne con il marito
cercando di trovare le parole giuste per descrivere una
situazione che avrebbe lasciato perplesso chiunque. Ma
un dubbio l’aveva assalita da subito e un po’ terrorizzata.
E se, per non sovraccaricarsi di problemi, il marito si
fosse dimostrato indifferente alla gravità della cosa?
Da tempo aveva capito quanto lui si fosse staccato da lei
e, addirittura a volte, la considerasse persino un peso. Di
sicuro non mostrava alcun affetto nei suoi confronti.
L’aveva dimostrato anche con la mancanza di preoccupazione
la sera del suo rientro da Brescia a notte fatta. Sapendo
dove si era recata avrebbe potuto telefonare all’Ovra
per avere notizie e non lo aveva fatto. Al suo ritorno
non le aveva neppure chiesto se stesse bene, o se avesse
avuto qualche contrattempo. No, solo un bacio frettoloso
sulla porta di casa ed un arrivederci al giorno dopo.
Tutto questo colpiva enormemente il suo orgoglio, l’orgoglio
di una donna che si sapeva intelligente, sicuramente
più colta del marito e molto desiderata dagli uomini.
Se avesse appurato l’indifferenza del coniuge gliela
avrebbe fatta pagare. Sapeva a chi rivolgere le sue attenzioni
andando a colpo sicuro e, questa volta, per appaga-
re sé stessa e non le smanie di carriera del marito.
In fin dei conti quel farmacista che si era fatto avanti
tempo prima non era sicuramente un uomo da buttar
via. Forse era stata troppo drastica nel respingerlo. D’altra
parte rivolgere pubblicamente lo sdegno che nutriva
nei riguardi di quel lurido Parroco poteva essere pericoloso
e rivoltarsi contro di lei. Dopo il suo intervento
all’arresto dei suoi paesani da parte delle SS, il prete era
diventato, agli occhi di tutti, fascisti e non, quasi un
eroe. Non sarebbe riuscita a rendersi credibile. Inoltre
avrebbe dovuto giustificare la sua presenza negli uffici
dell’Ovra in un momento assai delicato per il Regime.
Avrebbe avuto bisogno dell’appoggio delle autorità fasciste,
ma quale sarebbe stato il prezzo che avrebbe dovuto
pagare per ottenerlo? Qualche dubbio sul modo di agire
dei fascisti e dei tedeschi cominciava a insidiarla.
Il pomeriggio del giorno dopo la brutta avventura si era
incontrata con l’amica Annetta. Questa, ancora sotto
shock, le aveva raccontato quanto si era verificato in sua
presenza nella casa-prigione. La descrizione particolareggiata
delle sevizie alle quali era stato sottoposto il Fausto
Domeneghini l’aveva sconvolta ed il fatto che il marito
avesse in qualche modo tacitamente approvata l’azione
dei tedeschi le dava il voltastomaco. Desiderò cancellare
il ricordo degli ultimi avvenimenti. Si sentiva sola, triste
e priva di quelle sicurezze che da anni la sostenevano.
Fu così che decise di non compiere alcun atto contro il
Parroco: in fin dei conti, ammise, non era stata violentata
– se non moralmente, ma forse dava un po’ troppa importanza
al fatto. L’unico, orribile, contatto con il corpo del
prete era stato quando lui aveva insinuato le mani tra le
sue cosce. L’unico, almeno, che lei ricordasse. Ma in fin
dei conti poteva essere lo scotto da pagare, la giusta punizione
alla indegna disponibilità che aveva preso di soddisfare
voglie di altri uomini per avvantaggiare la carriera del
marito. Giunta a questa decisione si sentì immediatamente
meglio. Forse avrebbe fatto un salto in farmacia a comprare
qualche cachet se le fosse tornato il mal di testa, ma
in effetti per farsi vedere dal farmacista e chissà…
Il Temperini aveva ripreso la sua vita abituale. Ora che il
pericolo che si verificassero altre conseguenze all’attentato,
sembrava passato, aveva una gran voglia di raccontare
a tutti la parte – Eroica, ragazzi. Mica da ridere portare
a spasso della dinamite. E se non ci fossi stato io chi
avrebbe avuto il coraggio di farlo? – avuta nell’atto di
ribellione ai tedeschi.
Più di una volta al bar si era morsicato la lingua per evitare
di lasciarsi andare ad un racconto, romanzato, di quanto
aveva fatto. Ma non poteva assolutamente coinvolgere
i suoi soci in eventuali conseguenze e non era, comunque,
il caso di rischiare. Ormai i partigiani al nord e gli angloamericani
che stavano risalendo l’Italia stavano dando un
colpo mortale alla resistenza fascista e ai tedeschi.
La Liberazione stava avvicinandosi. Bisognava avere pazienza,
aspettare, ma dopo quanto avrebbe avuto da raccontare!
E intanto ci ricamava su col pensiero, aggiungendo
ai fatti realmente accaduti particolari inventati per rendere
la descrizione più gustosa e affascinante.
“Signora Lucia, vederLa è sempre un gran piacere per gli
occhi. Grazie per la visita. Cosa posso fare per Lei?” disse,
col più bello dei sorrisi possibili, alla maestra quando
entrò in farmacia.
CAPITOLO XLVIII
Lo chiamavano tutti Cantamessa da così tanto tempo
che nessuno ricordava più il suo vero nome. Il soprannome
era dovuto al fatto che passava tutta la giornata,
qualsiasi lavoro facesse, cantando inni sacri, la messa solenne
in un approssimativo latino – che nessuno comunque
sapeva correggere – a volte avventurandosi in qualche
Canto Gregoriano. Aveva una discreta voce baritonale che
contrastava con il suo fisico minuto, che però era provvisto
di una gabbia toracica davvero abnorme. Diceva di
aver imparato tutta quella roba di chiesa quando faceva il
giardiniere presso il seminario di Bergamo dove aveva studiato
don Pompeo. Del Parroco però, inspiegabilmente,
non voleva parlare, lasciando capire di aver ricevuto dal
giovane seminarista qualche ingiustizia.
Viveva poveramente traendo qualche frutto da un orto
nel quale curava una serra. Lì coltivava poche piante da
fiore che vendeva, più che altro in occasione delle festività.
Lavorava anche a giornata presso alcuni possidenti
quando era il periodo della potatura delle viti e degli
alberi da frutta.
In questo era molto bravo e quindi ricercato. Ma vigneti
e broli non erano così tanti da procuragli soldi sufficienti
a una esistenza decente. Arrotondava con la raccolta
delle castagne, dei funghi e con la vendemmia.
Un giorno che stava camminando verso casa, incontrò
Ernesto, lo fermò e gli chiese:
“Sei tu il responsabile dell’orto dei bambini?” Avutane
risposta positiva continuò: “Quest’anno non piove e non
ha voglia di nevicare. Il grano è spuntato ma se non lo
bagnate finisce che secca e muore”.
Era uno che se ne intendeva, lo riconoscevano tutti e il
bambino, che ne aveva sentito parlare dagli adulti, tenne
in grande considerazione il consiglio. Sorrise al vecchio,
ringraziandolo, e la mattina successiva chiese alla maestra
il permesso di recarsi, insieme al fido amico Bertolasi,
a bagnare l’Orto Fascista. Gli era stato consigliato
dal Cantamessa e quindi era sicuramente cosa da fare.
Entrambi i ragazzi avevano una preparazione superiore
alla media della classe: nulla in contrario, da parte della
maestra, se saltavano qualche ora di lezione.
Fu così che i due bambini uscirono da scuola. Avevano
bisogno di un innaffiatoio e Ernesto sapeva dove trovarlo.
Tornò a casa e raggiunse il fondaco ove la vecchia zia
Erminia, sorella del nonno e vedova da anni, teneva i
suoi attrezzi.
L’Erminia aveva tre grandi amori: il Padreterno, che onorava
assistendo ogni giorno alla Santa Messa con Comunione,
i suoi sette gatti per i quali si sarebbe sottratta,
se necessario, il cibo di bocca, e i suoi gerani. Questi
erano, tutti gli anni, i più belli del paese e lei ne riempiva
i davanzali delle finestre e le ringhiere dell’ampio terrazzo
che dava sulla piazza Mercato.
Si diceva che riuscisse ad ottenere foglie verdissime e
fiori dai colori brillanti bagnandoli con acqua mista
alla sua urina.
Chi però, in paese, aveva provato questa forma di “con-
cimazione” ne aveva ottenuto risultati opposti. Le piante
avevano, in breve tempo, perso le foglie e i fiori appassivano.
Forse sbagliavano il dosaggio o forse la loro urina
non aveva la qualità di quella dell’Erminia.
Lei era gelosissima dei suoi attrezzi e quindi bisognava
prendere quello che ai ragazzi serviva senza farsi vedere.
Chiedere il permesso sarebbe stato inutile. La vecchia
zia avrebbe trovato di sicuro una scusa per non
affidare qualcosa a Ernesto del quale, data la sua giovane
età, non si fidava.
Vi erano diversi tipi di innaffiatoi e i ragazzi ne scelsero
uno, non troppo grande da essere per loro troppo pesante
né troppo piccolo che obbligasse loro a fare, troppo spesso,
avanti indietro tra l’orto e la fontana.
Sgusciarono fuori dal cortile tenendosi rasenti al muro di
casa per non farsi vedere; fecero mezzo giro della piazza
per allontanarsi dalla vista dell’Erminia, si accostarono
alla fontana e riempirono il contenitore.
Dopo due ore di duro lavoro i ragazzi, nonostante la
giornata fredda dei primi di dicembre, erano sudati e
stanchi morti. Decisero di interrompere il lavoro per
riprenderlo, se avessero avuto il permesso della maestra,
l’indomani.
Pensarono di non riportare l’innaffiatoio a casa: correvano
il rischio di essere scoperti o subito o l’indomani mattina
quando lo avrebbero dovuto nuovamente prelevare.
Che si scoprisse l’ammanco era praticamente impossibile,
non era tempo di gerani e la vecchia zia non aveva
alcuna ragione di andare nel fondaco a controllare.
Avrebbero ricoverato l’innaffiatoio nel gabbiotto degli
attrezzi. Chi avrebbe potuto rubarlo?
Il Mario andò dal bidello della scuola per farsi dare la
chiave del lucchetto. Al suo ritorno aprirono il portoncino
e Ernesto cercò, spostando gli attrezzi che erano all’interno,
di fare spazio. Muovendo il sacchetto di sementi
avanzate alla semina autunnale, nel semibuio del
piccolo locale, improvvisamente gli apparve una cosa
strana: una specie di candela grigia con una corda che
usciva da uno dei capi. Allungò una mano e la prese portandola
all’esterno. Sia lui che il Bertolasi esclamarono
all’unisono “Ma questo è un candelotto di dinamite!”
Cosa farne? Portarlo ai Carabinieri o nasconderlo in
qualche posto?
Entrambi capirono che doveva far parte dell’esplosivo
che era stato usato per far saltare in alto la vettura e uccidere
il soldato tedesco. Era qualcosa che scottava. Ernesto
era il responsabile dell’orto. Non è che potessero
incolparlo di qualche cosa?
“Facciamolo sparire, dai! Poi ci penseremo” concordarono.
Vuotarono il sacchetto delle sementi, ci misero il
candelotto e chiusero il gabbiotto.