Gli indizi ci sono. Ma le prove si contraddicono e, in particolare, non è possibile stabilire con certezza l’orario della morte. Con queste motivazioni – contenute nella sentenza depositata nelle scorse ore – la Corte d’appello di Brescia ha assolto lo scorso 29 marzo l’uomo accusato di aver ucciso l’86enne Diva Borin.
L’anziana, che viveva sola e non aveva parenti stretti, era stata trovata senza vita su una poltrona del proprio appartamento il 2 marzo del 2019. Probabilmente strangolata con un foulard. Le attenzioni degli investigatori, quindi, si erano subito concentrate su un 37enne, dipendente di un vicino supermercato e badante/factotum della donna insieme alla moglie.
L’Appello ha confermato la sentenza di primo grado (settembre 2022), nonostante la pubblica accusa avesse ribadito la condanna a 14 anni di pena per “omicidio volontario e premeditato“. Secondo il pm, infatti, l’uomo – che avrebbe ottenuto l’eredità di Diva Borin – aveva agito per un movente economico.
Significative le motivazioni messe nero su bianco dal giudice d’Appello: “Ad avviso della Corte ci si trova al cospetto di un caso di contraddittorietà della prova, poiché a carico di COGNOME sussiste una serie di elementi indiziari che, valutati nel loro insieme, sarebbero stati senz’altro idonei a indicarlo come autore dell’omicidio per cui si procede, ma al tempo stesso, a suo valore milita il dato relativo all’orario della morte della vittima”. Secondo i periti, infatti, l’omicidio si sarebbe consumato dopo le 3 del 2 marzo e a quell’ora COGNOME non poteva trovarsi nell’abitazione dell’86enne.