✻ Salò: l’ultimo Fascismo | DAL GRUPPO G9

Come Salò creò il Mu-Sa e ora vi ha collocato la sezione permanente degli anni della Repubblica Sociale

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Allestimento Mu.Sa., foto da gruppo G9

di PINO MONGIELLO* Sono passati trentanove anni da quando il Consiglio comunale di Salò, rappresentato da partiti di centro, destra e sinistra unanimi decise di costituire un “istituto culturale” (museo-centro studi?… tutto da definire) con l’obiettivo di favorire la conoscenza dei fatti riguardanti la Repubblica sociale italiana e attivare iniziative di carattere scientifico e divulgativo sull’argomento. Era esclusa categoricamente ogni replica di quel bazar della nostalgia sorto a Predappio, paese natale del duce.

Che fosse giunto il momento di non considerare più un tabù la RSI per la città di Salò era una sollecitazione di Silvia Giacomoni, giornalista di Repubblica, moglie di Giorgio Bocca, sostenuta nel corso di alcune riunioni che l’amministrazione Marchioro, nei primi anni Ottanta, aveva promosso in termini e modi “pre-politici”, quasi un forum di approfondimento sul presente e il futuro della cittadina benacense. Oltre a Giacomoni, intervennero nel dibattito gli architetti milanesi Alberto Ferruzzi e Oscar Cagna, esperti di paesaggio, architettura, design e arte; Sisto dalla Palma, critico teatrale, drammaturgo e docente all’Università Cattolica di Milano. Era il tempo in cui si ponevano le basi per importanti cambiamenti nella riqualificazione ambientale e funzionale del centro cittadino salodiano, della passeggiata a lago, della mobilità e della pedonalizzazione, dei collegamenti con le zone periferiche, soprattutto con le Rive.

Proprio in una di quelle riunioni, la giornalista sostenne che era il momento per Salò di togliersi di dosso il complesso di essere stata la “capitale della RSI”. Intendiamoci, Salò in quanto città del lago non aveva né colpa né peccato; non aveva mosso un dito per assumere quel ruolo o per portarsi dietro una nomea per la quale non poteva esserci alcun vanto. Perché la RSI fosse diventata, nel linguaggio comune, la Repubblica di Salò non sta scritto da nessuna parte. Ci furono tentativi del genere: in particolare fu Vittorio Pirlo, che alla Repubblica di Salò a suo tempo aveva aderito e successivamente divenne sindaco della cittadina gardesana per un quinquennio negli anni Cinquanta, quale indipendente nella lista DC, a sostenere e diffondere l’opinione che, poiché i dispacci politici della Repubblichina partivano da Salò ad opera della Agenzia Stefani, ciò giustificava l’etichetta con tanto di marchio sopra.

Ricordo che, durante il mio mandato di sindaco (1989-1994), nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Bruno Vespa, che vedeva la partecipazione, tra gli altri, dell’eminente storico Nicola Tranfaglia, io chiesi espressamente al professore quali fossero i motivi di tale identificazione, ed egli rispose che non c’erano studi sull’accoppiamento del nome di Salò con la Repubblica dell’ultimo fascismo. Inoltre i ministeri fascisti erano distribuiti lungo tutta la Riviera gardesana e importanti sedi erano collocate in diverse città dell’Alta Italia.

Se Salò in questa operazione storico-toponomastica non c’entrava niente, perché turbarsene?

C’era, tuttavia, un altro fattore che circolava dal 1975 suscitando molto scalpore. Si trattava del film di Pier Paolo Pasolini “Salò o le centoventi giornate di Sodoma”: La pellicola era stata condannata per oscenità e corruzione di minori; nel 1976 era stata sequestrata e ne era stata vietata la proiezione nelle sale italiane. In questo caso il nome di Salò (città che al suo attivo ha una storia piuttosto onorevole) andava a cozzare con un’operazione cinematografica di grande risonanza. Era ancor più importante, allora, che la città gardesana si scrollasse di dosso ogni ingiustificato complesso e proponesse la realizzazione di un Centro studi su tutto l’argomento in questione, proprio come suggeriva convintamente Silvia Giacomoni, anche se la giornalista pensava, in prima istanza, alla costituzione di una realtà museale.

Quando, nel mio ruolo di assessore alla cultura, spiegai in consiglio comunale l’intera problematica e presentai la proposta da valutare (si era nel 1983/84), essa fu accettata all’unanimità. Si decise che del soggetto nuovo con valenza storico-culturale, sarebbe stato dato incarico al prof. Roberto Chiarini, docente alla Statale di Milano, per la formulazione di un piano esecutivo, sulla direttrice delle linee guida che egli stesso aveva presentate al Consiglio. Ora, se la questione fu accettata senza riserve a Salò, non fu però altrettanto sostenuta da chi, come l’ANPI, portava avanti con vigore i princìpi dell’antifascismo.

L’idea di creare fermento attorno a un tema che, non possiamo negarlo, suscitava curiosità morbose (si pensi, ad esempio, alla villa Fiordaliso di Gardone Riviera e alla coda di prenotazioni per dormire una notte in quello che era stato il giaciglio di Claretta, l’amante di Mussolini) fece nascere nel mondo del turismo e del commercio salodiano il “partito” del sostegno “a prescindere”, indifferente ad approcci culturali e storici alle vicende della RSI. L’importante era che se ne parlasse perché il solo parlarne “fa promozione”. Tuttavia bisogna fare il possibile per conoscere la storia senza pregiudizi ideologici, esaltazioni o nostalgie, soprattutto una storia divisiva e raccontata in maniera controversa. L’istituto a cui si pensava doveva avere, per gli amministratori di allora, il carattere della scientificità e al tempo stesso doveva rispondere a una funzione pedagogico-divulgativa, ma passarono altri dieci anni perché l’iter avviato riprendesse vigore e portasse a significativi risultati.

E’ con l’insediamento in Regione Lombardia di un governo di centro-destra (1995) e con la figura del giovane assessore Marzio Tremaglia quale responsabile del settore Cultura e Trasparenza, che il progetto salodiano relativo alla RSI diviene operativo. I soggetti pubblici interessati alla cosa erano, in primo luogo il Comune di Salò (centrosinistra); la Provincia di Brescia (centrosinistra) e la Regione Lombardia (centrodestra). È su sollecitazione del Comune che, subito, la Regione risponde dimostrando interesse. Io stesso ho collaborato alla stesura della prima bozza dello statuto, in una riunione tenuta a Bergamo nello studio legale Tremaglia. Quando, il 3 dicembre 2005, si inaugurò presso Palazzo Fantoni il Centro studi che allora si volle intitolare a Marzio Tremaglia, prematuramente scomparso, “Bresciaoggi” mi intervistò come persona informata dei fatti ma che, guarda caso, non era stata invitata all’inaugurazione. Nell’intervista evidenziavo, tra l’altro, le dinamiche che avevano favorito il nascere del centro stesso, i punti irrinunciabili rispetto ai quali l’amministrazione, retta allora dal sindaco Giovanni Cigognetti, non sarebbe indietreggiata. Per esempio, non avrebbe mai accettata l’idea della realizzazione di un museo tout-court che sarebbe diventato una sorta di sacrario cui fare pellegrinaggi della nostalgia. Al contrario, l’obiettivo doveva essere la creazione di un luogo di approfondimento e di ricerca. Di più. Il Comune non volle limitare gli studi alla sola RSI ma volle allargare le attenzioni sull’intero periodo storico ’43-‘45, distinzione niente affatto secondaria, perché in questo modo apriva le porte anche alla storia della Resistenza. Il Comune di Salò si oppose anche a una deliberazione della Giunta regionale nella quale venivano già indicati i componenti del Comitato scientifico, senza che ci fosse stato un preventivo confronto tra gli enti interessati. Tra fughe in avanti della Regione, riserve delle associazioni partigiane e ripensamenti da parte della Provincia di Brescia, passò diverso tempo. Il progetto fu approvato in via definitiva solo nel dicembre 1999.

Questo lungo antefatto è necessario per comprendere quanto sia stato complesso e non privo di ostacoli l’iter per dare vita all’iniziativa che da parte dei salodiani si voleva mettere in cantiere. Dal 1999 ad oggi l’amministrazione comunale salodiana di centrodestra ha fatto crescere il Centro studi aprendo anche una sezione espositiva presso il MuSa, mentre archivio e biblioteca si trovano presso il Salotto della Cultura. Non so se tale spazio museale abbia un’esplicita configurazione nelle carte dello statuto, ma l’importante è che siano rispettati i principi di scientificità e di obiettività storica. Questo lo dico soprattutto perché un precedente allestimento espositivo sullo stesso argomento qualche anno fa aveva sollevato rumorosi dissensi e aveva rese evidenti pesanti insoddisfazioni.

Sta di fatto che dalla fine di giugno di quest’anno abbiamo assistito al cambio sostanziale degli allestimenti pregressi cui la stampa ha dato risalto.

L’ultimo piano del MuSa è dunque destinato a illustrare l’evento storico della RSI, dalla crisi politica del 25 luglio 1943 al lascito della RSI dopo la sua caduta nel 1945. Il Comune punta molto su questo progetto che, tiene a dire, non ha alcuna sottintesa intenzione di revisionismo. La sua ambizione è di farne anche un elemento propulsore del turismo culturale salodiano. Non a caso le spese di lancio pubblicitario del nuovo allestimento, che sarà stabile, sono state piuttosto significative.

Ho visitato le sale del MuSa dedicate a “L’ultimo fascismo 1943-45/La Repubblica Sociale Italiana” curate da Roberto Chiarini, Elena Pala e Giuseppe Parlato. Ho anche consultato il volume che supporta le tematiche rappresentate (opportuna la traduzione in inglese dei testi). Va detto che i collaboratori chiamati all’opera sono di tutto rispetto e che numerosi enti pubblici di importanza nazionale, ed anche collezionisti privati hanno ceduto in comodato diverse opere di rara circolazione. Nello spazio dedicato a quel fatidico biennio del ‘900 nulla prevale se non un invito a conoscere, a capire, a riflettere. Gigantografie e didascalie si pongono con efficacia allo sguardo di chi visita. “Grande storia” e “piccola storia” hanno uguale spazio di attenzione. Vita sociale, educazione scolastica (ben calibrato il testo di Daria Gabusi), stampa, propaganda, deportazioni, Resistenza raccontano di un periodo che ha lasciato sul terreno illusioni, contraddizioni, devastazioni sulle quali non può regnare l’indifferenza. Insomma, si può dire che chi entra nello spazio del MuSa per vedere l’allestimento sull’ultimo fascismo ne esce con la consapevolezza di aver assistito a una proficua lezione di storia.

*L’AUTORE DELL’ARTICOLO: PINO MONGIELLO


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Ultimo aggiornamento il 4 Aprile 2024 08:48

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