di Paolo Pagani* – Il dopo verrà. E dal prima e dal durante bisogna trarre gli insegnamenti. L’imperativo è non tornare alla normalità. Sia chiaro: dobbiamo ringraziare le madri e i padri della prima Repubblica che ci hanno “donato” il servizio sanitario nazionale.
Senza, il bilancio, oggi drammatico, sarebbe tragico. Non coltivo il minimo dubbio. Ma una manutenzione, se non una ristrutturazione, del sistema è ineludibile.
Il nodo Gordiano da tagliare non è la regionalizzazione in sé. È questa regionalizzazione, per come si è evoluta (o involuta) nell’ultimo decennio. Al di là dei tagli (37 miliardi). Al di là, perché se il sistema reggesse nei fondamentali, sarebbe relativamente semplice rifinanziarlo. Ma è dalle fondamenta che va raddrizzato.
Dico subito che non si tratta di pensare ad una centralizzazione del SSN, ad una gestione esclusiva dello stato. Che non c’è mai stata. E che non è contemplata dalla 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale.
Quella che occorre è, invece, un’operazione su almeno 4 livelli:
1) Rafforzare il ruolo di indirizzo, di coordinamento e di controllo del livello statale. Lo strumento principe non possono essere solo i livelli essenziali di assistenza. Il secondo strumento principe deve essere un piano pluriennale socio-sanitario nazionale, da aggiornare di anno in anno. Con il potere di ordinanza e di emanazione di direttive stringenti, durante le emergenze, in capo esclusivamente allo stato. È semplicemente fuori di sesto che il ministero produca un indirizzo su ospedali Covid separati e, per restare in casa nostra, che la Regione pensi ad un Covid interno al Civile.
2) Rafforzare, secondo cogenti linee nazionali, il ruolo di pianificazione e programmazione delle regioni, che devono essere spogliate da ogni compito gestionale. La Lombardia, ad esempio, è diventata un mastodonte burocratico lontano dal territorio. Che, non a caso, a partire dell’assistenza domiciliare, è stato abbandonato.
3) Superamento,conseguente, della aziendalizzazione, riportando gli enti locali territoriali nella gestione, mantenendo la distinzione tra ruolo politico e ruolo tecnico dei direttori. Questi devono essere scelti attraverso criteri oggettivi, cancellando per sempre la lottizzazione partitica, ma devono poter essere revocati da almeno 2/3 dei sindaci dell’ambito territoriale di gestione. Per un corretto funzionamento le fonti di legittimazione devono essere diversificate. Il grido di dolore dei nostri sindaci, a partire da Emilio Del Bono, non sarebbe rimasto inascoltato. Come, purtroppo, é sotto gli occhi di tutti.
Per essere cristallino, domando: il cittadino si sentirebbe più tutelato se nella plancia di comando delle unità sanitarie locali ci fossero personaggi del calibro di Italo Nicoletto, Dolores Abbiati, Gianni Savoldi, Doralice Vivetti (componenti del Cda del Civile in tempi passati) o un direttore che risponde esclusivamente, in tutto e per tutto, all’assessore regionale? Bando all’ipocrisia della politica fuori dalla sanità. Perché è vero il contrario. È la politica regionale che occupa la sanità. E massimamente in Lombardia. È perspicuo che in questo modello il SSN diventerebbe la casa comune e non sarebbero possibili 20 case regionali. Ed è ancora più perspicuo che in questa costruzione non ci sarebbe spazio per un modello così eccentrico (e che sta dando cattiva prova di sé) come quello lombardo.
4) Ridefinire i rapporti con la sanità privata, di cui non si può fare a meno, sulla base di convenzioni che definiscano, in modo chiaro, funzioni, compiti e finanziamenti.
Anche da questo punto di vista l’esempio da non seguire è quello lombardo.
Purtroppo, ad oggi, non si intravede un minimo di riflessione ai piani alti del Pirellone, ma solo prove muscolari e polemiche, fuori luogo, smentite regolarmente dai fatti, verso il governo centrale. Che sia dovuto al tentativo di occultare errori, limiti e omissioni, è più di un sospetto.
* segretario provinciale di Articolo UNO di Brescia