Fine pandemia e smart working, come si sono organizzati gli italiani

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Foto generica da Pixabay

Quando nel marzo 2020 è ufficialmente scoppiata la pandemia di Covid-19 in Italia, 6 milioni e mezzo di italiani si sono ritrovati dall’oggi al domani a lavorare da casa. E pensare che, prima della pandemia, erano soltanto 570 mila i cittadini in smart working.

A settembre 2020, il dato ha subito delle variazioni, assestandosi a 5 milioni di lavoratori in regime di smart working. Cosa accadrà a fine pandemia? Chi ha lavorato da casa e tornerà ufficialmente tra le mura anguste e poco comode dell’ufficio come si sentirà? Ma, soprattutto, avrà imparato qualcosa in termini di umanità?

In questi due anni di pandemia, i monitor PC di qualità sono diventati di fondamentale importanza. La motivazione si chiama Smart working, che ha portato tantissimi italiani a lavorare da casa a causa del lockdown e delle successive restrizioni.

Smart working post-pandemia: cosa pensano i lavoratori?

Cosa pensano i lavoratori italiani del futuro dello smart working quando finirà la pandemia? Secondo un sondaggio condotto nella fascia di età tra i 25 e i 60 anni, la maggior parte vorrebbe che il lavoro da remoto rimanesse anche in futuro.

Siccome la rivoluzione sembra ormai iniziata, pare poco probabile che lo smart working sparisca così come è arrivato. Infatti, la fascia di età compresa tra i 20 e i 30 anni propendono per una soluzione ibrida e flessibile, ossia metà lavoro da casa e metà in ufficio.

Sembrerebbe questa, infatti, la scelta che moltissimi lavoratori sarebbero disposti ad accettare, non un totale home working quindi ma una soluzione che gli permetta ai lavoratori di rientrare in ufficio a giorni alterni o con orari completamente flessibili, come succede in moltissime aziende americane che da anni applicano una flessibilità nella gestione degli orari con la quasi completa dismissione dei cartellini di ingresso ed uscita.

Alcune questioni da considerare

Ci sono però delle questioni che meritano un’indagine approfondita. La questione reperibilità dei lavoratori durante lo smart working: come verrebbe regolamentata? Intanto, molti lavoratori (il 45%) affermano di aver sofferto eccessivamente la maggiore richiesta di disponibilità online.

E le aziende? Secondo la maggior parte dei manager che si occupano delle Risorse umane, l’intenzione è di trovare una corretta gestione della reperibilità dei lavoratori in remoto tramite alcune azioni specifiche, come l’ampliamento ufficiale dell’orario di reperibilità e una gestione autonoma dei gruppi.

La regolamentazione appare quindi necessaria onde evitare screzi, oltre che utile per rendere tutto più sicuro e fluido. Secondo la maggior parte dei lavoratori (80% circa), l’azienda dovrebbe assumersi una parte dell’onere delle spese sostenute dai lavoratori in smart working, come la postazione di lavoro, la connessione internet, ecc. Ovviamente, quasi tutte le aziende sono concordi nella non partecipazione a tali spese.

Altra questione da sciogliere è il lavoro per obiettivi. Fortunatamente, sia le aziende che i lavoratori sembrano concordi in questo che può essere uno scoglio difficile se si errogono due muri nei vari confronti ufficiali.

Da un lato, il 56% dei lavoratori afferma che l’azienda in cui lavorano ha provveduto alla riprogrammazione del lavoro per obiettivi, dall’altro il 69% dei manager delle risorse umane afferma che è in dirittura d’arrivo l’introduzione di modalità lavorative per obiettivi e con orari di lavoro più fluidi. Inoltre, quasi l’unanimità dei lavoratori afferma che lo smart working ha offerto loro la possibilità di far convivere il lavoro con esigenze prettamente personali.

Infine, la questione dei percorsi di formazione.

L’82% dei lavoratori afferma quanto siano necessari per lavorare al meglio in smart working, a cui fa eco il 90% delle aziende, che si dicono già pronte a istituire percorsi di formazione su piattaforme online di e-learning o tramite webinar specifici e obbligatori.

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