🔻 Ero a Riva del Garda con mio padre Sigmund Freud 🔺DAL GRUPPO G9
di Mario Baldoli – Nel 1906 mio padre Sigmund decise una vacanza insolita e scese con la nostra famiglia nell’Austria italiana. Ci fermammo dapprima a Lavarone all’hotel du Lac dove divorammo un menu fantastico a differenza del nord: pesce, pollame, carne.
E’ questa un’intervista immaginaria tratta da Mio padre Sigmund Freud, scritta dal figlio Martin, a cura di Francesco Marchioro, Il Sommolago editore, a.2001, n 2.
Il gestore dell’hotel si presentò: “Siamo ebrei”,
“Anche noi” rispose nostro padre che ignorava che io, Martin, la pecora nera della famiglia, tenevo, come quasi tutti allora, un diario su cui annotavo ogni curiosità. Noi due ragazzi, le altre quattro erano femmine e partecipavano raramente, ci divertivamo a remare nel lago o nuotavamo in quell’acqua gelata.
Nostro padre, d’abitudine faceva lunghe passeggiate, anche di 13 ore, sulle montagne intorno. Che detestasse le novità dell’epoca, telefoni, radio, macchina da scrivere, trovò una conferma quando il presidio austriaco lì presente, che aveva armi vecchissime, nemmeno calze, ma fasce per i piedi e mandava un soldato sull’albero più alto per individuare il nemico, provò un pallone aerostatico che dopo varie difficoltà di manovra, andò in fiamme.
Con lunghe camminate e qualche tratto in carrozza arrivammo a Caldonazzo in largo anticipo perché mio padre temeva sempre di essere in ritardo. Poi a Trento dove aveva prenotato un magnifico albergo dove non riuscimmo a dormire per il fracasso notturno dei trentini. Il mattino passammo per Terlago, attraversammo la valle del Sarca Poi mio papà ed io ci inerpicammo sul monte Gazza. Freud aveva dato ordini specifici per le camminate in alta montagna: stare distanti, non parlare troppo, non sedersi, non far rotolare pietre. Ma nella salita io che ero in testa non lo vidi più. Tornato indietro lo trovai appoggiato a un masso col volto violaceo, si era tolto la cravatta ma non la giacca, il suo volto restava calmo. Si bevve un gran sorso di Chianti che avevano nello zaino e ripartimmo cambiando itinerario, il monte Gazza di m 1835 si rivelò troppo duro ripiegammo su Molveno. Il lago era trasparente come un cristallo.
In autunno scendemmo a Riva su due landò. Lo ricordo come il viaggio più piacevole della mia vita. Ad una fermata, un vetturino scavalcò un muretto, prese un grappolo d’uva nero come l’inferno e ce lo offrì. Freud chiese di pagarla, ma quello rispose “per gentilezza”. Quella era la mentalità della famiglia, ed io non sentii rimproveri di coscienza. Ci fermammo in un hotel tra Riva e Torbole, dove nel giardino maturavano uva, pesche fichi.
In dieci minuti si raggiungeva Riva. Mio padre faceva regolarmente il bagno. “Nuotava solo a rana attento a non bagnarsi la barba grigia”, sembrava un Nettuno e ne notai le spalle larghe e l’energia.
Facemmo poi una gita a Sirmione e visitammo le grotte di Catullo. Al ritorno c’era vento è il piccolo battello a ruota era sballottato dalle onde; le italiane pregavano Dio di salvarle, ma noi Freud restammo impassibili, era una preziosa qualità che nostro padre ci aveva insegnato. In un Paese così ricco di frutta e verdura, il pranzo a bordo fu pessimo tanto che Freud disse al cameriere che andava bene per i pesci e gettò la coppa nel lago. Pochi giorni dopo lui tornò a Vienna.
A Riva noi ragazzi sognavamo l’avventura, andavamo in barca in quel lago che sembrava grandissimo finchè trovammo sul fondo di una barca un albero di 2 metri con una vela. Un irlandese ci spiegò come fissare l’albero e ci diede qualche consiglio su come issare la vela, governare il boma e governarla con la scotta. Con noi venne Anna. Piacevolmente sorpresi, scoprimmo che la nostra piccola barca andava a gonfie e vele, correva veloce, obbediente alla guida e al vento in poppa. Nostra madre ci aveva dato il permesso di navigare fino a Limone e Malcesine e ci preparò panini con la frutta. Riva era sotto l’Austria e l’Italia distava solo qualche chilometro: non c’era bisogno di passaporto e così, con il vento favorevole si poteva arrivare in Italia la mattina con la tramontana e tornare in Austria il pomeriggio con l’ora.
Limone era un paese povero dove i limoni crescono sulle terrazze e tra le case, invece Malcesine era un paese grosso e con molti alberghi.
Nel corso della gita, il vento da sud rinforzò e il lago ingrossava con grossi flutti così che ogni nostro tentativo di cambiare direzione non aveva successo. Noi riuscimmo a calare la vela. Costringemmo Anna a stendersi sul fondo, non avevamo paura anche se la barca era ingovernabile, in particolare Anna che disse di essersi goduta immensamente l’avventura. Anna dimostrò di non aver paura anni dopo, quando i nazisti invasero l’Austria e la nostra casa.
Mamma si accorse che la barca si inclinava e la vela sbatteva. Scese al porto e chiese a un barcaiolo di raggiungerci. La sua barca, con nostra vergogna, si avvicinò leggera sulle onde e ci portò al piccolo porto di Ponale (ora non più esistente, il luogo si trova poco a sud-ovest di Riva, in quella che adesso è località Sperone, n.d.r.)
Credo che molte madri sarebbero rimaste sconvolte da un simile incidente, soprattutto se in assenza del marito fossero state le sole responsabili dei figli. Sebbene nostra madre fosse l’unica in famiglia a non avere spirito marinaro, aveva dimostrato grande coraggio in quella situazione.
Eravamo stati sciocchi ad andare al largo ignorando i flutti che stavano agitando il lago, ma com’era abitudine nella nostra famiglia non ci furono rimproveri, così la vicenda fu preso dimenticata.
ARTICOLO A CURA DEL GRUPPO G9
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