Brescia, da Piazza Loggia alla gru: 600 metri e 36 anni

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    Abbiamo appreso la sentenza del terzo processo per la strage di Piazza Loggia: tutti assolti. Questa volta con “dubbio”. Non ne sono rimasto sorpreso. 1000 brandelli di verità, acquisite in questi anni, a partire dagli istanti successivi all’esplosione, ci hanno dato l’inconfutabile certezza delle responsabilità storiche e politiche della strage: una miscela mefitica di pezzi di istituzioni, apparati statali e internazionali e di stragismo neofascista. 1000 buchi neri di omissioni, di depistaggi e di segreti non ancora svelati hanno impedito il raggiungimento certo della verità giudiziaria.

    Resta, forse, qualche elemento su cui riflettere, qualche indicazione, che da quel giorno arriva fino a oggi, all’altro ieri, quando gli ultimi quattro ragazzi in cerca di un permesso di soggiorno sono scesi dalla gru di Piazzale Cesare Battisti.

    Il 28 maggio del 74 avevo 16 anni. Da 6 anni, per l’anagrafe cittadina, ero classificato come "immigrato da Napoli". Quella mattina ero in Piazza Loggia. Avevo deciso di partecipare alla manifestazione antifascista indetta dal Comitato Unitario Antifascista.

    Non voglio qui raccontare l’orrore – e come potrei – ma una minuscola fetta della strada che da quel giorno porta ad oggi.

    Da allora ad oggi non sono passati solo tanti anni, ma una vera e propria epoca storica. Il mondo è completamente cambiato. Non voglio fare salti impossibili o collegamenti ben più che improbabili. Dobbiamo amaramente ammettere però – basta guardarsi intorno – che le macerie delle bombe di quegli anni appaiono oggi trasfigurate nelle macerie politiche, sociali ed etiche del nostro presente. E non mi riferisco affatto solo al berlusconismo o al dilagare della Lega. La caduta delle grandi forze politiche e sociali uscite dal dopoguerra, tranne poche eccezioni, è avvenuta nella demolizione di ideologie ed ideali, di concezioni del mondo e pratiche politiche, dell’etica della responsabilità e dell’etica della convinzione. E’ in questo spazio terremotato che ci muoviamo oggi. Dobbiamo tenerne conto. Sia pure senza mai abbandonare la speranza, mai la lotta.

    Così vorrei dire qualche parola anch’io a chi è salito sulla gru, a chi ha lottato insieme a loro per il riconoscimento di un diritto negato e di un’ingiustizia subita.

    Da un anno e mezzo sto manifestando, tutti i mesi, assieme ad altri uomini e donne, contro il pacchetto sicurezza, le politiche discriminatorie di questo paese e le ordinanze vessatorie della nostra amministrazione cittadina. Le nostre iniziative le abbiamo chiamate "Siamo sulla stessa barca". In Italia usano spesso dire così i potenti e gli opportunisti per affermare che "ognuno deve stare al suo posto" altrimenti si affonda. Abbiamo preso a prestito la barca piena di migranti che la Lega Nord ha usato nei suoi manifesti elettorali. In quei manifesti c’era una grande scritta: abbiamo fermato l’invasione! Dicevano: rimandiamoli a casa! Noi diciamo che quella è la barca dei diritti e su quella barca dobbiamo salirci anche noi. I diritti dei migranti sono anche i nostri, se non vogliamo affondare – tutti – nel mare dell’arbitrio e della giustizia sommaria.

     

    Manifestiamo con una forma strana: stiamo un’ora in piedi, in cerchio e in silenzio. Troppi in questo paese pensano, ottusamente, che più si fa la voce grossa, più si ha ragione e più si ottiene consenso. Per noi parlano i cartelloni che ci mettiamo sulle spalle. In quei cartelloni facciamo controinformazione. Diamo testimonianze e notizie che poche volte leggiamo sui giornali o ascoltiamo dai media. Chi volantina invece, parla – eccome – con la gente che incontra. Parliamo soprattutto con quelli che non la pensano come noi. Quelli che si sono persuasi, con tante bugie e molta disinformazione, che gli uomini e le donne che provengono da luoghi del mondo più poveri del nostro sono il principale problema per la sicurezza, per la convivenza sociale e ora, in tempo di crisi, anche per l’economia del nostro paese. Cerchiamo di convincere queste persone che non è così. Solo pochissimi – quelli completamente ottenebrati dal pregiudizio – passano e ridono, o lanciano contumelie. Molti ci guardano con curiosità e attenzione. Qualche dubbio l’abbiamo seminato, di questo siamo certi.

    Il 3 novembre, dopo la nostra ora di silenzio siamo venuti a portare la nostra solidarietà sotto la gru. Qualche giorno prima – eravate appena saliti – lo aveva fatto il Movimento Nonviolento con il quale condividiamo le nostre iniziative. Siamo stati accolti con un applauso. Poi le cose hanno preso un’altra piega. La lotta aveva ottenuto un risultato forte sul piano simbolico, e stava per cogliere risultati parziali ma importanti anche rispetto agli obbiettivi. Accettare di misurarsi sul piano della contrapposizione secca – o i permessi o non scendiamo! – senza valutarne bene le forze, le alleanze, i possibili sbocchi ha portato inevitabilmente all’esito che conosciamo.

    Quando vi ho visto camminare sul braccio della gru, senza protezione alcuna, esposti ad un pericolo terribile; appollaiati in quella gabbia di ferro, stanchi, intirizziti e logorati; quando vi ho visto accennare alla possibilità di gesti disperati e definitivi, ho pensato che anche tutte le ragioni del mondo non potevano esporvi, o peggio ancora, sacrificarvi a un rischio così grande.

    La vostra – e nostra – giusta lotta doveva prendere un’altra strada, un’altra forma. E questo è stato l’unico motivo di felicità quando vi ho visto scendere.

    Il presidio sotto la gru ha visto passare molte persone generose e convinte ma sono state ancora poche, pochissime, rispetto a quelle che ci sarebbero dovute essere.

    Per conquistare degli obbiettivi occorre consenso. Per far ciò bisogna dialogare con il numero più grande possibile di interlocutori, occorre convincere anche gli Altri.

    Occorre anche trovare delle mediazioni, individuare mete praticabili, raggiungere degli accordi, anche quando le ingiustizie sono evidenti e vorremmo cancellarle con un colpo solo.

    In un colpo solo però nessuno ha mai conquistato nulla, nulla di veramente solido e duraturo.

    Ma sotto la gru ho visto e sentito anche delle cose sbagliate. E le ho sentite ripetere anche dopo, alla radio, sui giornali. Le parole sono pietre!

    Ho sentito spesso ripetere “Lotta dura senza paura”. Molte volte si è parlato del vostro eroismo, del vostro coraggio. Cose contraddittorie, anche pericolose.

    Perché non dovremmo avere “paura”? Quando abbiamo paura esprimiamo il nostro senso di inquietudine perché qualche cosa di pressante ci preoccupa, esprimiamo l’ansia, l’angoscia che ci prende quando siamo in allerta per dei pericoli che incombono, per le ingiustizie che possiamo subire. E l’unico autentico coraggio che ci può sostenere, nelle lotte che intraprendiamo, è quello che prende le mosse da quell’inquietudine, che ci spinge a reagire, a trovare soluzioni, a fare fronte a quei pericoli. Il coraggio e la paura, se sono autentici, viaggiano sempre insieme. Sono fratelli, nascono dentro di noi, nel nostro “cuore”. Eccola la radice del coraggio.

    Ma nessuna lotta e nessun coraggio può bastare senza buone ragioni, senza solide e profonde riflessioni.

    Ho sentito anche più volte parlare di eroi e di eroismo. Qui non c’è molto da dire. Gli eroi sono figure mitiche. Né uomini, né dei. Personaggi ambigui e irraggiungibili. Senza paura e senza coraggio, come solo soggetti senza umanità potrebbero essere. Non a caso di eroi e di eroismo hanno parlato e si sono nutrite – da sempre – tutte le peggiori e nefaste ideologie fasciste, oscurantiste e reazionarie. Gli eroi lasciamoli nei miti e nelle leggende. Noi abbiamo bisogno di uomini e donne, in carne ed ossa. Con le loro paure e il loro coraggio. Che non hanno niente a che vedere con la viltà e la codardia, e nemmeno con i gesti incoscienti, disperati ed irrazionali.

    La retorica, questo modo scaltro di svuotare le parole, gonfiandone a dismisura la pellicola esterna, è un arnese che non porta mai da nessuna parte. Anche quando è animato da buone intenzioni. Anche quando sembra accendere gli entusiasmi, spegne – subdolamente – il senso critico e la verifica continua di azioni e ragioni.

    Un ultima cosa. Ho sentito gridare più volte: assassini! Indirizzato ai poliziotti. E’ sbagliato, ma soprattutto ingiusto.

    Ho visto i comportamenti sconsiderati e inaccettabili della polizia durante lo sgombero del presidio e nelle ore immediatamente successive. Comportamenti che sono stati giustamente denunciati.

    Nonostante ciò, non posso considerare i poliziotti nostri nemici e nemmeno nostri avversari. Anche con gli uomini e le donne della polizia dobbiamo parlare. Con loro, con le loro rappresentanze.

    Dobbiamo chiedere loro di riflettere sul proprio mestiere quando ci sono in gioco persone che manifestano le proprie opinioni, che lottano per ottenere dei diritti.

    Dobbiamo chiedere loro a quale etica si ispirano in queste circostanze, a quale considerazione della dignità delle persone. Dobbiamo chiedergli di mettere in discussione disposizioni che prevedano la violazione delle dignità delle persone che manifestano pacificamente le proprie opinioni.

    Dobbiamo chiedergli, in nome della propria dignità, di rifiutarsi di eseguire comandi palesemente sbagliati, fino a disobbedire a ogni ordine di violenza su ogni persona inerme, su chiunque manifesti le proprie opinioni senza rappresentare pericolo per alcuno.

    Ma dobbiamo convincerli. Almeno aprire qualche breccia, in quello che sembra un muro muto di caschi e manganelli, ma è composto da uomini e donne che possono pretendere rispetto. Ma solo esprimendo rispetto!

    Ho ben presente la storia oscura delle forze dell’ordine di questo paese. Da Piazza Loggia a Genova. Ero nelle strade di quella città nel luglio del 2001. Ma nessuno può dire: “poliziotti” assassini. Gli assassini hanno un nome e un cognome. E anche di costoro, qualcuno, dovrebbe pure occuparsi.

    Gli assassini hanno un nome e un cognome, anche quando non li conosceremo mai. Come quelli che hanno portato via, in un incubo di fumo e di cristallo, il 28 maggio del ’74, otto uomini e donne e ferito più di cento persone – né martiri, né eroi – che hanno lottato e stanno lottando ancora per ottenere verità e giustizia. Da Piazza Loggia, 36 anni fa. Solo a 600 metri dalla gru di Piazzale Cesare Battisti.  

     LETTERA DI MIMMO CORTESE 

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    1 COMMENT

    1. Grazie per la bella riflessione che però non mi aiuta a trovare un po\’ di ottimismo. Avanza in me – senza che io senta di poterlo impedire – una forza oscura che mi obbligherebbe a comunicare di più e meglio la preoccupazione che ho per per tutti noi: città, quartieri, partiti, associazioni, gruppi, amici, fratelli, famiglia… e invece… più aumentano i pensieri, più sento di non saper far altro che tacere… quasi fossi stato colpito da un\’ischemia celebrale.
      Ho la sensazione di abitare in una città dove le energie migliori non sanno dialogare tra di loro. Anzi, al contrario, si impegnano a recriminare vicendevolmente le proprie incapacità, elevano spessi muri attorno alle proprie convinzioni… quasi fosse il prologo che, inconsapevolmente, si lavori al cortocircuito della nostra convivenza.

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