C’è collegamento tra Covid-19 e inquinamento? La domanda se la stanno ponendo in molti. Ma le risposte da parte degli scienziati, come spesso avviene di questi tempi, non sono omogenee tra loro. Ad abbozzare un riassunto del dibattito in corso ci ha pensato l’Unsic (sindacato datoriale con 2.100 Caf e 550 sedi di patronato in tutta Italia) che ha approfondito la questione, consultando numerose fonti e producendo due mappe indicative: una con i dati oggettivi della Protezione civile sull’incidenza dei casi di coronavirus (rielaborati in base al numero dei residenti per provincia), l’altra con il “peso” dell’inquinamento sempre per provincia, frutto dell’assemblaggio e della rielaborazione dei dati sulla presenza dei vari tipi di particolato.
Nelle due mappe dodici livelli di colorazione, corrispondenti a rispettive classi di gravità, mettono a confronto i due blocchi di dati. Da una parte, in linea con i sostenitori dell’ipotesi di stretto collegamento tra inquinamento e pandemia, emergono sovrapposizioni abbastanza nette in Pianura Padana, ma pure nell’area settentrionale di Marche, Toscana e Sardegna. Inoltre nel Mezzogiorno, dove il virus ha colpito poco, si confermano i bassi indici complessivi di contaminazione ambientale. Al contrario, alcune aree inquinate nel Centrosud (ad esempio nel Lazio, in Campania e in Puglia) non registrano percentuali rilevanti di contagi da Covid-19, smentendo quindi la relazione. Emblematico il caso di Taranto o delle tante Terre dei fuochi.
In Lombardia, nel dettaglio, i rilevanti dati dell’inquinamento e quelli del Covid-19 presentano collegamenti per l’accentuazione di entrambi i fenomeni rispetto alla media nazionale. Tutta la regione presenta percentuali medio-alte di contagiati da Covid-19 rispetto al numero dei residenti (si va dai 37 ogni 10mila residenti nella provincia di Varese fino ai 174 di Cremona, con Milano a quota 67), mentre sul fronte dell’inquinamento la situazione è grave in particolare proprio nelle province di Cremona e Lodi.
I temi in discussione, secondo quanto riassunto nello studio di Unsic, sono sostanzialmente tre. Li riportiamo di seguito.
Il primo riguarda l’eventuale presenza del virus nell’aria inquinata. A sostenere tale tesi sono diversi ricercatori, tra cui quelli della Società italiana di medicina ambientale. Una loro recente ricerca dimostra che frammenti di Rna del Sars-Cov-2 sono nel particolato atmosferico, cioè nel Pm, e questo fungerebbe da veicolo (carrier) e amplificatore (boost). Chi avversa la teoria, pur riconoscendo la presenza del virus nel particolato atmosferico insieme a particelle biologiche (batteri, spore, pollini, funghi, alghe, ecc.), ritiene tuttavia poco probabile che possa mantenere intatte le proprietà infettive dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente aperto. La discussione è tuttora in corso.
Un secondo tema presenta, invece, più consapevolezza comune e visione omogenea tra gli esperti: dal momento che l’inquinamento generato da un’alta concentrazione di particolato influisce sul sistema respiratorio o su quello cardiocircolatorio – su questo non ci sono dubbi – finisce per renderli più suscettibili alle complicanze della malattia. Insomma, sulla necessità di ridurre l’inquinamento c’è concordanza. Meno, purtroppo, da parte degli amministratori pubblici nell’attuare le politiche più idonee.
Un terzo tema, subordinato agli altri due, investe la relazione tra aree inquinate e alta percentuale di casi di coronavirus in quel territorio. Qui gli scienziati tornano ad essere divisi tra loro, anche perché non è facile stabilire con certezza una relazione.
(se il video presenta interruzioni dovute all’aggiornamento della pagina potete guardarlo direttamente su YouTube a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=d_eudbUy1fU)
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