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A Brescia l’abito fa il monaco. E a volte anche l’arrabbiatura

di Lucia Marchesi – Parliamo di abbigliamento. Non intendo certo dare consigli di stile: l’estate bresciana ci ha offerto spunti che saranno sicuramente imitati ai prossimi Academy Awards.

Quest’anno, poi, andavano di moda i colori fluo. Ma noi bresciane non ci possiamo accontentare di un unico accessorio fluorescente abbinato a un abbigliamento nero. Eh no. Noi dobbiamo sempre esagerare e i colori fluo li indossiamo tutti insieme. Così, se di sera camminiamo per strada, gli automobilisti rallentano chiedendosi se ci siano nei paraggi dei lavori in corso. Certo, ci si guadagna in sicurezza. Si è visibili a chilometri di distanza.

Ma, a Brescia, l’abito fa il monaco? La risposta è sì. Purtroppo, mi verrebbe da aggiungere. Come l’auto, di cui abbiamo parlato una vita fa, l’abbigliamento è uno status symbol. Peccato che il risultato sia l’impressione che tutti siano fatti con lo stampino. Uguali. Identici.

Ma lo status non è dato solo da cosa si indossa. Eh, no. La firma prima di tutto. Perciò tra due “gnari” vestiti in modo identico, con jeans e camicia, per esempio, quello veramente elegante è il ragazzo che ha un certo logo sulla camicia e un altro sui pantaloni. Perché non basta la firma. Deve essere quella firma.

La cosa triste è che questo accade da sempre in ogni fascia d’età.

Quando andavo alle medie era il periodo dei Dr. Martens. Tutti li avevamo, originali o meno. Beh, alcune mie compagne di scuola, durante l’ora di educazione fisica, passavano in rassegna tutto lo spogliatoio, leggendo sotto la suola se la scarpa era firmata oppure no. A 12 anni. Non è triste?

Cosa ancora più triste, crescendo la cosa non è migliorata. Tanti ragazzi che all’epoca avevano 10-15 anni, e che oggi viaggiano verso i 30, non hanno sentito il bisogno di rivedere le loro priorità.

Così, se decidi di andare a una serata sul lago di Garda, tanto per fare un esempio, devi sapere che in alcuni luoghi dovrai essere sottoposto alla cosiddetta “radiografia newyorkese”. Cosa significa? Che gli altri avventori ti squadrano da capo a piedi, analizzando tutto quello che indossi e calcolando mentalmente il valore economico del tuo “look”. E, se non rientri nei loro standard, piovono i commenti, neanche tanto velati. Cammini e senti dietro di te frasi del tipo «Ma che scarpe ha quella lì? Non ha neanche i tacchi. E di che marca sono?», che denotano solo il livello intellettuale del soggetto. Purtroppo, parlo per esperienze personali, e non solo mie.

Dulcis in fundo, se in seguito a una simile piacevole esperienza, decidi di rimediare, devi affrontare un altro difficile ostacolo: il negozio chic. E, in alcuni di essi, alla “radiografia newyorkese” si aggiunge un’altra, approfondita, analisi. Quella del fisico. Che deve rispettare un certo standard.

E così, noi che quasi raggiungiamo la perfezione della sfera, possiamo anche sentirci dire «Ah, ma qui per lei non c’è nulla. Provi nel reparto uomo».

Uomo? Ma come uomo? Cioè, se io sono rotondetta, i vestiti firmati me li devo comprare da uomo?

Guardate, non sarò chic. Ma se questi sono i presupposti, ne faccio volentieri a meno.

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Redazione BsNews.it

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