di Andrea Tortelli – Per 15 ore ha lasciato con il fiato sospeso un’intera città. Ben Issa, mercoledì, si è arrampicato sul tetto di Palazzo Loggia, sfidando l’altezza e la (precaria) copertura in piombo-zinco del municipio, che al primo sole si trasforma in una graticola. Ne è sceso soltanto alle 14 del giorno dopo. Un’impresa, tanto più se si hanno 56 anni, dettata dall’incoscienza. O meglio dalla disperazione di chi, fuggito dal Marocco, da dieci anni vive in Italia nel largo cono d’ombra della clandestinità. E da allora promette inutilmente ai figli, che mantiene con versamenti mensili frutto di lavori d’occasione, di riabbracciarli “presto”.
D – Perché arrivare a tanto?
R – Sono qui dal 2002 e nel 2009 ho fatto domanda per la sanatoria. Ogni mese dico ai miei figli che andrò a trovarli presto. Ma quel giorno non arriva mai e nel frattempo tanta gente che è sbarcata in Italia dopo di me ha ottenuto il permesso. Sono stanco di dire bugie alla mia famiglia e di vedere i ragazzi soltanto tramite internet. Per questo sono salito sul tetto. Morire non mi preoccupa più da tempo.
D – Sul tetto la vita l’ha rischiata sul serio…
R – Non sono matto e non dico sia stato facile vivere quell’esperienza, oltretutto senza mangiare. Ma sono arrivato a un livello tale di esasperazione che sono anche disposto a perdere la vita per ottenere il mio diritto.
D – Ha pensato seriamente di lanciarsi nel vuoto?
R – Se non mi avessero dato una risposta positiva probabilmente l’avrei fatto.
D – Cosa l’ha convinta a scendere?
R – Gli avvocati, la Cgil e Diritti per tutti mi hanno assicurato che per la mia pratica non ci sono problemi. Ma a convincermi sono stati anche i tanti amici che mi guardavano dalla piazza e gli anziani che – mi è stato raccontato – si sono avvicinati in lacrime agli agenti della Digos chiedendo come potevano aiutarmi.
D – Com’è Brescia vista dal tetto della Loggia?
R – Mi sembrava di stare su un aereo. Ma non ho avuto paura. In testa avevo soltanto il permesso.
D – E adesso che è tornato con i piedi per terra come vede i bresciani?
R – Bravissima gente, ho tanti amici qui e mi sento anche io bresciano, tanto che la domenica vado spesso allo stadio a guardare le partite delle Rondinelle. I bresciani non sono razzisti. Ma la legge e alcune regole leghiste sono profondamente ingiuste: per questo vanno cambiate.
D – Diritti per tutti e la Cgil su questo la pensano come lei. Ma hanno criticato il suo gesto perché “non condiviso e troppo pericoloso”…
R – Nessuno di loro sapeva cosa avrei fatto. E poi hanno cercato di convincermi a scendere. Ho fatto tutto da solo e me ne assumo la responsabilità.
D – Il sindaco Paroli e il suo vice Rolfi hanno detto invece che lei avrebbe dovuto “aspettare come tutti che l’iter (burocratico, ndr) si concludesse”. E affermato che quanto accaduto è segno di mancanza di rispetto per le istituzioni e per la città…
R – Mi spiace molto se ho provocato disagi a qualcuno. Ma vi chiedo: cos’altro avrei potuto fare? Ho presentato regolare domanda, pagato avvocati e il risultato è che – per colpa di una legge ingiusta – da dieci anni non posso vedere la mia famiglia e avere un lavoro regolare perché sono senza permesso. Anche per andare a scuola e imparare bene l’italiano mi servono i documenti. E sinceramente mi sta passando la voglia di farlo. Sono stanco di vivere come un cane. Non voglio fare gesti negativi o eclatanti. Ma sono pronto a tutto e, se il mio permesso non arriverà a breve, la prossima volta non mi fiderò più di nessuno.
D – A breve che significa?
R – Un mese, due al massimo.
D – E se non dovesse arrivare in quei tempi?
R – Solo Dio sa cosa devo fare.
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