La scuola tra presente e futuro: intervista a Valerio Ricciardelli
di Sandro Terrani* – In questi giorni, per le famiglie e gli studenti di terza media è tempo di scegliere la scuola superiore, e quindi è necessario poter disporre di tutte le informazioni utili per indirizzare meglio le aspirazioni dei nostri giovani al primo appuntamento importante per le scelte del loro futuro.
Quest’anno, per le riforme in corso con l’introduzione di un nuovo liceo del Made in Italy e per la sperimentazione 4+2 targata Valditara, le decisioni da prendere potrebbero essere più complesse, anche perché non c’è stato il tempo sufficiente per fare un adeguato orientamento, e forse anche il mondo scolastico è ancora disorientato e non preparato a presentare queste novità per la repentinità e la fretta con cui sono avvenute.
Anche la Giunta Regionale Lombarda, per prima in Italia, ha approvato lo scorso 21 dicembre una delibera per la definizione delle “prime linee di attuazione della sperimentazione delle filiere formative tecnologico-professionali in Regione Lombardia”.
L’assessora regionale Simona Tironi, con delega all’Istruzione-Formazione-Lavoro, ha subito accompagnato la decisione regionale con la dichiarazione: “Questa sperimentazione sarà una grande opportunità per gli studenti. Ed anche per il tessuto imprenditoriale, perché il mercato del lavoro è in continua evoluzione. Quindi c’è sempre più bisogno di una stretta correlazione fra scuola e impresa. Dobbiamo fare di tutto per orientare al meglio i nostri ragazzi, affinché scelgano il percorso più affine alle loro esigenze e a quelle del tessuto produttivo”.
Sembra, però, che tutta questa fretta sia da ricondurre alla necessità di spendere le cifre enormi del PNRR, soprattutto a riguardo degli ITS Academy, senza avere le idee molto chiare su cosa si dovrebbe fare. Auguriamoci, allora, che in questo caso non sia applicabile il detto: “la gatta frettolosa fa i gattini ciechi”.
Vista l’importanza e la complessità dell’argomento, come già anticipato, abbiamo intervistato l’ingegner Valerio Ricciardelli, un ex manager anche maestro del lavoro, con una importante esperienza internazionale nel campo della global education. Vorremmo quindi indirizzare questo suo nuovo contributo innanzitutto alle famiglie e agli studenti che dovranno fare nei prossimi giorni una scelta importante. Ma forse, le sue osservazioni potrebbero essere utili anche a quel mondo scolastico che avrebbe bisogno di più chiarezza su queste novità, che non sembra siano state sufficientemente dibattute secondo quanto richiederebbero le riforme scolastiche in un Paese che è ancora la seconda manifattura in Europa.
Ingegner Ricciardelli, le famiglie e gli studenti di terza media nelle prossime settimane devono scegliere le scuole superiori e sicuramente quest’anno la scelta sarà più complessa perché influenzata anche dalle nuove riforme. Sappiamo che lei ha delle posizioni ben precise, soprattutto sul liceo del made in Italy e sulla sperimentazione 4+2 Valditara. Quali sono le sue opinioni?
Innanzitutto, l’ambito delle mie competenze riguarda le professioni tecniche in generale e quindi il sistema dell’istruzione tecnica nella sua visione più ampia, in una realtà già abbastanza confusa dove c’è anche l’istruzione professionale e la formazione professionale regionale, e questi tre percorsi distinti andrebbero riordinati in maniera diversa, posizionando correttamente anche l’istruzione terziaria degli ITS Academy (attualmente non posizionata in un sistema stabile), e tenendo conto sia dell’evoluzione dell’economia industriale, che ormai è globalizzata, che dell’evoluzione dei mestieri tecnici di cui si dovrebbe occupare una buona istruzione tecnica. Come si vede siamo già in un campo di grande complessità, di cui non ci si può occupare con la fretta.
Fatta questa prima premessa, aggiungo che per quello che ho già ripetutamente scritto, sono un sostenitore di un grande rilancio dell’istruzione tecnica nazionale, che può essere fatto solo con una rivoluzione copernicana, attivabile con il coinvolgimento di grandi esperti non solo della scuola ma soprattutto dell’economia e del mercato del lavoro anche guardando in casa d’altri, il cui “innesco rivoluzionario” deve avvenire attraverso lo strumento più opportuno degli Stati Generali.
Perché sono un sostenitore di un grande rilancio dell’istruzione tecnica del nostro Paese? Perché il futuro dell’economia mondiale ed anche della nostra economia, dipenderà per circa il 70% da quello che è chiamato il “manufacturing avanzato”, compreso il green manufacturing con tutti i servizi associati. Questo richiede delle nuove professioni tecniche a media e alta conoscenza, oggi difficili da trovare nel nostro Paese, ricordando che l’Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa dopo la Germania e il nostro benessere, a partire dal sistema previdenziale e sanitario dipenderà, sempre più nel futuro, dalla capacità del Paese di fare una crescita economica e occupazionale non precaria e sostenibile. Per questa ragione, da tanto tempo e per tanti motivi che non sto qui ad elencare, sostengo che il rilancio dell’istruzione tecnica è una delle leve strategiche per consentire in tempi brevi queste crescite. Purtroppo, però, la nostra istruzione tecnica non è un sistema scolastico di eccellenza come quello della Germania e di altri paesi con cui ci troviamo a competere, e quindi ce ne dobbiamo occupare con grande competenza e urgenza per elevarne il livello qualitativo e quantitativo, e non con sperimentazioni fatte di fretta. Anche perché i segnali di pericolo che stanno correndo le nostre imprese e quindi tutti noi, li abbiamo già indicati ampiamente nella precedente intervista sul mismatch riguardante la carenza dei tecnici, che mi sembra abbia riscosso grande attenzione ma anche parecchia preoccupazione.
Quindi ci sono problemi seri da affrontare e la fretta non è una buona consigliera.
Sono ancora alla premessa, che però non è terminata.
Corro il rischio di ripetermi, ma è importante ricordare che una volta c’erano gli uffici scuola dei partiti con autorevoli pensatori che esprimevano il loro punto di vista, spesso non ascoltato ma c’erano almeno le condizioni per fare un dibattito approfondito. E poi c’erano i governi ombra con il ministro ombra, che anch’esso diceva la sua opinione e comunque dava un contributo, in ogni caso positivo, allargando il campo del dibattito. Ora non c’è più nulla, non c’è nessuna discussione perché questi argomenti non interessano a nessuno o forse non si hanno le competenze per dibatterli. Leggiamo solo i documenti ufficiali, spesso scritti male e senza significato, e gli scarni comunicati dei decisori politici a cui si aggiungono le dichiarazioni di alcuni responsabili della scuola che sostengono le novità introdotte senza nessuna argomentazione di merito, quasi dovessero solo compiacere e non disturbare le decisioni che sono state prese. Insomma, si va solo di fretta, vivendo, come dice il Censis nel rattrappimento del presente, concentrati sull’unico obiettivo di spendere in tempi ristretti più soldi possibili del PNRR senza chiederci se sarà debito buono e senza avere le idee chiare di cosa ha effettivamente bisogno il Paese.
Le uniche voci un po’ dissonanti provengono dalla rivista Tuttoscuola, che con grande garbo, aveva affermato che la riforma Valditara poteva essere una scommessa ma anche un azzardo, e dal Consiglio superiore della pubblica istruzione che con qualche altra istituzione sindacale l’hanno bocciata.
In questa assenza di dibattito che invece servirebbe con tutte le dovute argomentazioni, mi trovo in grande imbarazzo ad esprimere le mie opinioni, non certo perché dissento con le decisioni prese sulle quali è anche facile argomentare le mie ragioni, ma perché la funzione di questa intervista è soprattutto quella di comunicare dei contenuti importanti alle famiglie e agli studenti che devono fare delle scelte altrettanto importanti sul loro futuro. Quindi, mi si affida una grande responsabilità, alla quale non mi sottraggo, ma la situazione che avrei preferito sarebbe stato un ampio dibattito, pur con posizioni diverse, ma con un confronto serio e profondo sui contenuti.
Invece mi ritrovo spesso nella posizione di una “Vox clamantis in deserto”, che mi è stata fatta osservare da un autorevole esperto, che però mi ha incoraggiato a continuare ad esprimere il mio pensiero.
Quando si fanno riforme importanti è fondamentale allargare il più possibile l’ambito della discussione e del confronto, ma non l’ha fatto nemmeno la politica, per cui eccoci qui a sopperire, per quel che posso fare, a questa mancanza.
Dopo la lunga premessa, penso necessaria per posizionare meglio il mio contributo, ecco le mie opinioni.
A riguardo del liceo del made in Italy, per tutte le ragioni che ho scritto, ribadisco che è una iniziativa completamente sbagliata, che non ha nessuna logica. Voi avete già ripreso e ripubblicato le mie osservazioni che avevo predisposto e indirizzate, con una lettera aperta, ai parlamentari che ne dovevano discutere. È un documento di 20 pagine; lì c’è tutto. Sarebbe importantissimo confrontarmi con qualcuno che abbia delle altrettante e diverse opinioni, ma ben argomentate nel merito. Impareremmo reciprocamente, ma soprattutto faremmo una comunicazione corretta. Nell’impossibilità finora di questi confronti, per non rimanere chiuso nell’autoreferenzialità, ho confrontato e discusso il mio pensiero con diversi e autorevoli opinionisti, tra cui importanti manager aziendali, esperti del mondo della scuola e dell’education in generale, famiglie, e tutti si sono ritrovati in quanto ho scritto.
Circa la sperimentazione 4+2 targata Valditara, la questione è più complessa e condivido anche l’opinione di Tuttoscuola che l’ha definita una scommessa o un azzardo. Però, affidare il futuro dei nostri giovani al lancio di una monetina, dove in una faccia c’è la scommessa e nell’altra l’azzardo pare irragionevole e preoccupante. Così come condivido in parte il parere del Consiglio Superiore della pubblica istruzione, di cui ho scritto in altra occasione. In sintesi, la sperimentazione Valditara è solo la risposta a un bisogno di addestramento professionale che c’è nel Paese e di cui è doveroso occuparsene, ma nulla ha a che vedere con una riforma dell’istruzione tecnica di cui avremmo tanto bisogno, ed è la ragione per cui l’ho definita semplicemente un intervento di cattiva manutenzione dell’esistente.
Ma dove origina la riforma 4+2 di Valditara e perché la chiama un intervento di cattiva manutenzione dell’esistente?
In sintesi, riservandomi semmai più avanti i dettagli, il PNRR prevede almeno il raddoppio del numero degli studenti degli istituti tecnici superiori, oggi solo l’1% dei diplomati, contro il 40% della Germania, e l’obiettivo per tanti motivi sembra irrealistico. Allora, come spiegano molto bene anche Tito Boeri e Roberto Perotti nel loro libro dal titolo: “PNRR la grande abbuffata”, il ministro Valditara, “ per cercare di avvicinarsi all’obiettivo, ha progettato di dirottare verso gli ITS i potenziali studenti dell’istruzione tecnica e professionale riducendo a 4 i 5 anni della scuola secondaria e facendoli seguire da 2 anni negli ITS (sistema 4+2), snaturando così la stessa istruzione tecnico professionale che dovrebbe fornire invece a tanti studenti un canale rapido e professionalizzante verso il mercato del lavoro”. Quindi anziché attivare una, seppur complessa, rivoluzione copernicana di tutta l’istruzione tecnica, per la fretta di spendere i soldi del PNRR ma anche per la non conoscenza dell’argomento, si è cercato di mettere una “pezza” per tentare di raddoppiare gli iscritti agli ITS Academy, snaturando con tutte le conseguenze del caso l’impalcatura quinquennale delle scuole tecniche e professionali. Questo, in gergo tecnico si definisce una cattiva manutenzione dell’esistente.
Prima di approfondire le due questioni che ha citato in precedenza, per rimanere nell’ambito delle sue competenze, in questa realtà così complessa, con una grave carenza di tecnici che mette in sofferenza le nostre aziende, una istruzione tecnica bisognosa di essere ripensata, le riforme che boccia senza appello, cosa consiglierebbe alle famiglie e agli studenti che nei prossimi giorni devono fare delle scelte?
La domanda che mi fa è molto chiara, ma ha una sua complessità, perché la risposta almeno per la sperimentazione Valditara e di fronte alla regionalizzazione di una parte dell’istruzione, dovrebbe essere contestualizzata al territorio di riferimento.
Inizio a dare una risposta generale: dobbiamo fare di necessità virtù.
Poi, come sappiamo i percorsi scolastici dopo la terza media si suddividevano, prima della sperimentazione Valditara, prevalentemente nel percorso liceale, con diversi indirizzi, e in quello dell’istruzione tecnica, anch’esso con diversi indirizzi, a cui si aggiungevano il percorso dell’istruzione professionale e della formazione regionale.
La prima cosa che voglio evidenziare è che tutti i percorsi hanno pari dignità e che contrariamente a quanto è stato prodotto nel passato per un cattivo orientamento scolastico, l’istruzione tecnica e quella professionale non sono per niente percorsi di serie B e C, contrapposti ai percorsi liceali considerati di serie A. Tutto questo non è vero.
Poi, come ho già detto abbiamo un grande bisogno di professioni tecniche e molti di questi mestieri tecnici sono già e lo saranno sempre più, mestieri ad alto contenuto culturale e professionale con possibilità di remunerazione economica interessante. Le ragioni sono presto dette: perché gran parte di essi saranno professioni esercitate, direttamente o indirettamente in una economia globalizzata e quindi anche in un mondo allargato, interculturale e multiculturale. Dobbiamo capire che non siamo più in una economia domestica, abbarbicati in una visione territoriale e provinciale delle cose. Anche le piccole aziende che sembrano operare in un ambiente domestico appartengono ad una supply chain allargata, che significa che i loro clienti e i clienti dei clienti, così come i loro fornitori e i fornitori dei fornitori non appartengono più al recinto domestico ma possono essere distribuiti nel mondo, e quindi i decisori e i manovratori del business sono spesso fuori dai confini ristretti che vediamo. Questo è un punto importantissimo, e chi si occupa di riforme scolastiche deve conoscere e saper interpretare molto bene. Ed è la ragione per cui al tavolo dei “riformatori” della scuola devono essere seduti anche gli esperti di economia e del mercato del lavoro.
Per tutti questi motivi, ma anche per altri ancora su cui non mi voglio dilungare, la scelta della tradizionale istruzione tecnica quinquennale e non quadriennale della nuova filiera sperimentale Valditara, completata da un buon percorso di ITS Academy, sia pure nelle condizioni in cui ci troviamo, è pur sempre un buon investimento per il futuro. E nello stesso tempo, cosa molto importante, ci aiuta a risolvere il grande problema della carenza dei tecnici che, se non risolto adeguatamente metterà in difficoltà le nostre aziende e con un effetto a catena anche il nostro welfare.
Noi, infatti, abbiamo bisogno di più iscritti negli istituti tecnici industriali, riportando la percentuale dall’attuale 31% almeno al 50% di tanti anni fa, senza dimenticare che stiamo anche subendo un calo demografico molto importante. Nello stesso tempo vanno aumentati gli iscritti agli attuali ITS Academy che, come già detto, sono solamente l’1,1% dei diplomati, contro il 40% degli studenti tedeschi che scelgono i percorsi equivalenti di istruzione terziaria. Già da questi numeri si capisce che c’era e c’è qualcosa che non funziona, e seppur accompagnati dall’ottimismo della speranza, è il caso di fare i conti anche con il pessimismo della ragione e dei numeri, e il sistema dell’istruzione tecnica non può essere aggiustato con interventi di manutenzione dell’esistente che non poggiano su nessuna visione sistemica della filiera descritta dalle famose tre E, le iniziali di Economy, Employability ed Education, di cui ho scritto tante volte.
Quindi sono ancora un sostenitore dell’iscrizione agli istituti tecnici industriali quinquennali, che dopo la maturità aprono la strada ai percorsi dell’istruzione terziaria degli ITS, ai quali si dovrebbe invece riconoscere pari dignità con i percorsi universitari, conferendo il diploma di ingegneria (ed è su questo aspetto che servirebbe una riforma, attraverso il conferimento del titolo di studio di diploma in ingegneria, con diverse specializzazioni, al biennio degli ITS nell’ambito industriale, che renderebbe più attrattivo questo percorso di istruzione tecnica terziaria. Le università però si opporrebbero). La maturità conseguita all’istruzione tecnica apre anche la strada a tutti i percorsi universitari. Non interesserà a nessuno, ma anch’io ho frequentato l’istituto tecnico prima di iscrivermi all’università.
E cosa ci direbbe in più, contestualizzando la risposta al nostro territorio?
Direi cose positive. Siamo, fortunatamente, per quello che conosco in un’isola felice. Ci sono buone scuole, un sistema industriale molti interessante, un consolidato rapporto tra tutti gli attori in gioco, e già delle buone pratiche. Queste sono le migliori condizioni per poter far bene.
C’è però un possibile punto di debolezza da monitorare con attenzione: la denatalità con il conseguente calo demografico. Quanti saranno gli studenti tra 5, 10, 20 anni? Questa è la domanda che dobbiamo farci.
Come potremmo affrontare questo problema?
È un problema che avranno tutti. Lo descrisse molto bene la rivista The Economist lo scorso mese di maggio e ne parlò Tuttoscuola anche in modo allarmante.
Il protocollo che si potrebbe utilizzare è di fare gli Stati Generali della scuola limitati al territorio della provincia, ma con lo scopo preciso di costruire innanzitutto dei possibili scenari, che in prima battuta devono riguardare le evoluzioni delle diverse popolazioni scolastiche, con tutte le possibili conseguenze sulle comunità, sulle istituzioni, sull’economia, sui servizi. Non è un lavoro da poco ma sarebbe importante occuparsene.
Come si fanno queste cose?
Per quello che conosco, nel nostro Paese non è diffuso l’uso di questi strumenti che invece sono fondamentali nelle pianificazioni strategiche e nelle analisi dei rischi.
Sono invece abbastanza utilizzati nei paesi del nord Europa ed anche in Germania, dove talvolta le amministrazioni comunali, anche e soprattutto di piccole comunità, ne fanno uso per programmare la loro attività nel medio e lungo termine.
Io l’ho visto applicato alla città di Stoccarda, parlandone con l’allora sindaco prof. Schuster che tra l’altro si è poi occupato di Education for Employability, e quindi di politiche educative e formative indirizzate a creare occupazione non precaria.
Sicuramente è un modo strutturato per fare le pianificazioni strategiche di medio lungo termine, soprattutto nella fattispecie di eventi importanti che non possiamo controllare, quali il possibile calo demografico che impatterà non poco sul nostro Paese.
Per completare le sue risposte precedenti, ha qualche consiglio particolare da aggiungere ai giovani?
Il successo nella vita e nel lavoro, pur sapendo che dovremmo specificare meglio il significato di successo, dipende da noi stessi e lo studio è una delle leve più importanti, per cui occorre far appassionare i giovani allo studio e non cercare delle facili scorciatoie. Non è mai sufficiente quello che si apprende. È vero che lo studio non può essere l’unico scopo o impegno per un giovane, ma nemmeno l’ultima priorità come spesso accade. Certo la scuola deve essere attrattiva, bisogna passare dalla scuola centrata sull’insegnamento alla scuola centrata sull’apprendimento e la soluzione non è certo racchiusa “ nell’infatuazione del digitale”, ma poi la differenza la fa l’impegno personale e laddove la scuola è carente per vari motivi, lo studente può compensare con un maggior impegno.
Insomma, la scuola è la fabbrica del futuro: se funziona bene avremo un buon futuro, altrimenti raccoglieremo quello che abbiamo seminato.
Bisogna essere coscienti che è lo studio l’investimento più importante per i giovani, indipendentemente dal mestiere che poi andranno ad esercitare. Servirebbero sicuramente più ore di scuola, anziché riduzione d’orario. Ai miei tempi l’orario scolastico dell’istruzione tecnica era di 38 ore settimanali, oggi l’ammontare orario complessivo del quinquennio con la riduzione degli orari comporta all’incirca un anno scolastico in meno e la sperimentazione Valditara con il quadriennio ridurrà di un ulteriore anno. È vero che ci sono più strumenti e strategie di apprendimento rispetto al passato, ma è altrettanto vero che si deve imparare molto di più del passato. Poi raccomando le lingue straniere. Per chi fa l’istituto tecnico la conoscenza dell’inglese è importantissima. Inoltre, non è per niente vero che le materie tecniche sono più importanti di quelle umanistiche. Contrariamente a quello che si immagina, le professioni tecniche sono quelle che abbisognano di una buona capacità espressiva per tutta la documentazione che si deve produrre e per il sistema di relazioni che si deve intrattenere. Bisogna saper scrivere e argomentare bene. In più si è spesso in contatto con culture differenti, anche in contesti geopolitici importanti, e questo richiede di possedere una buona base di cultura umanistica, per cui non ci sono più le differenze tra le materie importanti e quelle secondarie come nel passato. L’istruzione tecnica quinquennale, e non la quadriennale della riforma, è pertanto un investimento sicuro.
Ora ci faccia capire meglio cosa non va del liceo del made in Italy
Avete già scritto parecchio di recente e quindi mi limito a fare la sintesi delle osservazioni del documento che avete pubblicato.
Se si vuole fare una nuova scuola per il made in Italy è perché si ritiene che servano, rispetto ai percorsi scolastici attuali, delle nuove conoscenze e competenze per nuovi mestieri o per rafforzare i mestieri che già esistono, al fine di promuovere questo importante settore della nostra economia, che riguarda alcuni beni prodotti in Italia che hanno, per varie ragioni, una buona attrattività nei mercati di esportazione. Quindi, migliorando l’export di questi prodotti, in una situazione dove i consumi interni non crescono in maniera sufficiente per sostenere la crescita del PIL di cui avremmo bisogno, contribuiamo a migliorare lo stato della nostra economia.
Ma prima di decidere quale scuola nuova si deve istituire, bisognerebbe conoscere bene cos’è il nostro made in Italy e quindi sapere quali sono i prodotti e i servizi che dobbiamo promuovere all’estero, per trovare il miglior modo per farlo. L’idea del liceo del made in Italy è nata all’interno del Ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare, in occasione della manifestazione vinicola del Vinitaly di Verona, molto probabilmente con lo scopo di sostenere l’esportazione dei nostri prodotti alimentari. Certamente sostenere maggiormente l’esportazione è una buona cosa. Ma ci dobbiamo chiedere se l’obiettivo è di esportare più vino o prodotti alimentari, oppure di far crescere tutto il settore del made in Italy ad iniziare da quelli di maggior peso? Se fosse quest’ultimo, occorrerebbe sapere che il settore trainante di tutto il made in Italy, che ha un peso importantissimo nel nostro export, è quello della meccanica strumentale, che incide tantissimo sul PIL e sui fattori occupazionali, e dobbiamo anche sapere che le aziende di questo settore, prevalentemente aziende manifatturiere, sono tra le più sofferenti nella ricerca di nuovi tecnici, e per tale ragione non riescono a sostenere i loro obiettivi di crescita nei mercati di esportazione. Quindi ben venga una scuola nuova per il made in Italy, ma che sia quella più appropriata che, per questo settore trainante del made in Italy deve necessariamente essere l’istituto tecnico del made in Italy e non un liceo dedicato. Pertanto, prima di istituire un percorso scolastico nuovo, bisogna conoscere molto bene il settore economico di riferimento e le professioni che servono, nonché le competenze di cui si ha bisogno, per poi arrivare alle conoscenze e ai nuovi curriculum e contenuti. Ci sono delle precise grammatiche da applicare quando ci si trova in queste fattispecie e, nel caso nostro, sembra che non siano state applicate.
Poi è evidente che si debba sostenere il “made in Italy” anche di altri sottosettori, come i prodotti alimentari, i mobili, ed altro ancora. Ma per tutto questo ci sono già dei buoni istituti tecnici e professionali e qualora non fossero sufficientemente adeguati o aggiornati che si provveda al loro potenziamento.
Il sostegno del made in Italy ha bisogno di una buona istruzione tecnica secondaria dedicata, con l’aggiunta di una eventuale buona istruzione tecnica terziaria attraverso gli ITS Academy.
Infatti, questo settore, come tutti i settori economici, richiede delle competenze particolari sui prodotti che si vogliono vendere e sul mercato in cui si vuole andare ad operare. Per la prima tipologia di competenze servono degli esperti di prodotto, e per esempio, per la meccanica strumentale servirebbero tantissimi meccatronici, mentre per la seconda tipologia servono le professioni della vendita, product manager, product specialist, sales engineer, ecc., per operare in tal caso in contesti internazionali. Queste competenze si devono acquisire in un istituto tecnico con i curriculum adeguati, magari ancora da definire, ma non certo in un liceo.
Per rafforzare queste argomentazioni, basterebbe osservare la Germania, che è il paese che esporta di più al mondo, e pur avendo degli importanti “marchi storici” da promuovere all’estero, non ha un liceo del made in Germany, ma bensì delle adeguate scuole tecniche di alto livello.
Aggiungo che grandi perplessità su questa incomprensibile idea di un nuovo e inutile liceo per il made in Italy, sono state espresse recentemente anche dal giornalista Paolo Pagliaro nel suo tradizionale “punto di Paolo Pagliaro” della trasmissione televisiva Otto e mezzo della Sette.
Ciò che preoccupa invece, è che alcuni autorevoli responsabili del mondo scolastico abbiano rilasciato dei giudizi positivi su questa nuova iniziativa, però con argomentazioni molto superficiali, forse più per compiacere i decisori. Sarebbe necessario invece un dibattito più approfondito.
E a riguardo della riforma 4+2 Valditara cosa aggiunge?
L’argomento è molto complesso e non è facile esaurirlo in una intervista. Ci vorrebbero delle ore. Mi limito all’essenziale.
Per capire meglio cos’è la sperimentazione targata Valditara 4+2, meglio definita come l’istituzione della sperimentazione della nuova filiera formativa tecnologico professionale, andrebbe letta la delibera fatta pochi giorni fa dalla Giunta Regionale Lombarda, riguardante l’approvazione delle prime linee guida per l’attivazione della sperimentazione e la raccolta della manifestazione d’interesse da parte degli enti di formazione accreditati, in vista dell’avvio nell’anno scolastico 2024-2025.
In prima sintesi, questa sperimentazione, indipendentemente dalle ragioni per cui nasce, è solo un rafforzamento della formazione professionale regionale, attraverso il coinvolgimento dei seguenti attori: un ente di formazione accreditato che farà da capofila, un istituto professionale o un istituto tecnico e una Fondazione ITS Academy. Questo nuovo organismo offrirà dei nuovi percorsi formativi tecnologici-professionali, tutti da definire e progettare, di durata quadriennale con la possibilità di acquisire la maturità ed eventualmente di proseguire il percorso con un biennio di ITS Academy, da cui la sigla 4+2.
Quindi a parer mio, questa non è assolutamente la riforma dell’istruzione tecnica di cui avrebbe bisogno il Paese. È invece l’estensione della territorializzazione dell’istruzione a livello regionale, con attenzione alla filiera tecnologico professionale (e non tecnico; attenzione ai termini perché hanno un loro preciso significato) e pertanto alla parte prevalente dell’addestramento, sperando poi, che le varie regioni siano capaci di progettare le nuove offerte formative secondo quello che serve.
Mentre l’economia è globalizzata e richiederebbe un sistema nazionale di istruzione tecnica di eccellenza, la riforma segue un percorso opposto, prevedendo la costruzione di 20 nuovi sistemi professionali regionali.
Immaginiamoci solo quelle aziende che hanno siti distribuiti in diverse regioni e che non sono poche, che dovranno cercare per gli stessi profili di ruolo, dei tecnici provenienti da sistemi di formazione professionale regionale differenti. Mentre in tutto il mondo c’è la standardizzazione dei profili, delle competenze e dei percorsi di istruzione fondamentali, da noi c’è la regionalizzazione e la parcellizzazione.
Di questo passo non ci saranno più solo i percorsi scolastici di serie A o di serie B, ma ci saranno le nuove filiere tecnologico professionale regionali di serie A, B, C, D, ecc., in funzione di quanto riusciranno a fare le diverse regioni. E nelle regioni dove non c’è già una formazione regionale strutturata e dove non c’è un tessuto industriale adeguato, cosa si farà?
Quindi il Ministero dell’istruzione e del merito sembra abbia abdicato o stia abdicando al suo ruolo, e piano piano si indirizza verso la regionalizzazione dell’istruzione o di una parte importante di essa quale l’istruzione tecnica e professionale, magari con l’obiettivo di una strisciante privatizzazione. Quest’ultimo è un dubbio che merita di essere perlomeno sollevato, sia pur con grande rispetto per gli enti di formazione privati di eccellenza, di cui sono sempre stato un sostenitore. In questo processo di sperimentazione, il Ministero che di fatto non è in grado di attivare la rivoluzione copernicana di cui invece avremmo bisogno, sta delegando sempre più responsabilità alle autonomie scolastiche e alle imprese, e in quest’ultime attingerà, come è già scritto da più parti, anche la docenza specialistica, ammesso che le aziende abbiano sufficienti specialisti da dedicare alle attività della scuola. E nelle regioni dove non ci sono le aziende o gli specialisti, cosa succederà? Questo aspetto di ricorrere alla docenza del personale delle aziende, che talvolta può servire se ben organizzata, ha però una dimensione pericolosissima da non sottovalutare sulla funzione stessa della scuola, ridotta a un ente di addestramento per il “tessuto produttivo”, dove si erogano contenuti mentre si dovrebbero far crescere delle persone. Bisognerebbe discutere a lungo su questo aspetto.
Precedentemente, ho usato di proposito il termine “tessuto produttivo”, che ha un significato preciso, perché, secondo me, è stato invece usato non correttamente quando si è comunicata la sperimentazione della riforma in Lombardia, affermando tra l’altro:” Dobbiamo fare di tutto per orientare al meglio i nostri ragazzi, affinché scelgano il percorso più affine alle loro esigenze e a quelle del tessuto produttivo”.
Ora le imprese che hanno bisogno di professioni tecniche si dividono in quelle del “tessuto produttivo” e quindi che hanno anche una loro produzione e in quelle del settore che non hanno da noi una produzione, e che sono prevalentemente le sales company di beni industriali o le aziende di servizi a supporto del manufacturing. Questo secondo “tessuto non produttivo”, molto spesso e per diverse ragioni, pesa più del “tessuto produttivo” ed è quel settore economico con più propensione alla crescita, che ci anticipa le innovazioni tecnologiche e organizzative e che pertanto ha bisogno di tanti tecnici di media e alta conoscenza, che devono provenire necessariamente da una istruzione tecnica di eccellenza e non da una buona formazione professionale. Per come è strutturata la riforma non risponde alle esigenze di questi importanti settori economici, perché è solo un potenziamento dell’addestramento professionale, sicuramente necessario, ma è solo un tassello di un mosaico completo che invece servirebbe e con urgenza.
Allora, utilizzando il giudizio di Tuttoscuola, che fa ricadere la riforma tra l’opzione di una scommessa e l’azzardo, provo a collocare la sintesi delle mie osservazioni tra queste due fattispecie.
La scommessa è nel rafforzamento della formazione professionale regionale e quindi, un incremento dell’addestramento professionale con la speranza di raccogliere sufficienti iscritti, che si cercano di attrarre solo annunciando una riforma, senza fare nessuna considerazione con solide argomentazioni sull’importanza delle professioni tecniche e sul perché è necessario e opportuno ricorrere alle scuole tecniche. Quindi è una riforma, come si suol dire, fatta “on demand”, che risponde prevalentemente ai bisogni odierni delle aziende, rinunciando invece al ruolo propulsivo che deve avere la scuola, guardando più in là di quello di cui hanno bisogno oggi le imprese.
L’azzardo è la confusione che si introduce con questa riforma, il rischio di una ulteriore perdita di identità degli istituti tecnici, la maturità quadriennale e quella quinquennale, e con quali differenze? Così come il biennio degli ITS per i diplomati del quadriennio e quello per i diplomati del quinquennio. Ma soprattutto la regionalizzazione di una parte importante dei percorsi scolastici che determinerà diverse velocità di risposta e diversi livelli qualitativi. Non dimentichiamoci poi della necessita della costruzione del nuovo teachware, ossia del materiale didattico in uso ai discenti e quindi delle difficoltà anche dell’editoria scolastica a produrre nuova documentazione in una situazione che si profila di nessuna convenienza economica.
Con il rischio che tutto potrebbe essere solo un fuoco di paglia. Questa riforma sembra invece che sia il ritorno della vecchia formazione professionale del passato, finanziata con il Fondo Sociale Europeo.
Noi non abbiamo bisogno di tanti corsifici, ma di creare un eccellente sistema nazionale di istruzione tecnica: siamo il secondo paese manifatturiero in Europa.
Cosa dobbiamo fare?
Ci si deve impegnare ad aumentare la conoscenza e la consapevolezza di come sono veramente le cose, anche se è una strada molto difficile, augurandoci che si possa aprire un dibattito approfondito soprattutto con chi possa esprimere posizioni e argomentazioni differenti da quelle che ho espresso.
Per questo motivo sto mettendo tutte le mie riflessioni in un libro di prossima pubblicazione.
In ogni caso confermo che la scelta del percorso quinquennale dell’istruzione tecnica, per chi si vuole orientare alle professioni tecniche, è un buon investimento.
Ci riusciremo?
Dobbiamo modulare sempre il nostro agire tra l’ottimismo della speranza e il pessimismo della ragione.
Certamente, per chi ha letto il recente rapporto Censis sullo stato del Paese, non sarà sfuggito quanto riporto di seguito:
I SONNAMBULI
Ciechi dinanzi ai presagi
Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza. La società italiana sembra affetta da un sonnambulismo diffuso, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti.
È questo il terreno dove dobbiamo operare.
* Direttore del quotidiano Lario News