L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 1-2
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CAPITOLO I
Il Federale aveva attraversato tutto il corso principale, ergendosi a bordo della sua vettura scoperta con la boria di un conquistatore e sventolando in alto la mano destra in un prolungato saluto romano. Rispondeva con sussiegosa cordialità ai tanti “Eia! Eia! Alalà!” delle camicie nere schierate ai lati della strada, alle quali si univa, più per convenienza o curiosità che per convinzione, qualche residente.
Con la mente unicamente rivolta a Roma e al “suo” Duce, era giunto, circondato da un nugolo di camicie nere, a inaugurare il locale Orto di Guerra, detto anche Orto Fascista.
Dopo aver lanciato nel 1925 la Battaglia del Grano, Mussolini, vista la situazione economica dell’Italia, da sempre dipendente dall’estero nel settore agro-alimentare, aveva indetto la campagna dell’Orto di Guerra, invitando tutti i comuni d’Italia ad affidare alla popolazione
la coltivazione delle aree pubbliche. Si era in piena guerra, tra il 1941 ed il 1942. L’invito, che era sentito come un obbligo dagli amministratori locali, timorosi di essere giudicati dei sovversivi se non si fossero adeguati in tempo agli “alti insegnamenti del Duce degli italiani”, in Valle Camonica non era stato accettato con grande entusiasmo.
Persino a Breno, considerato il paese della valle più vicino al Duce e agli ideali fascisti, tanto da annoverare tra i suoi concittadini più illustri persino un docente di Mistica Fascista all’Università di Milano, la creazione dell’Orto era stata continuamente rinviata.
Alla fine il Segretario della locale sezione del Partito Nazionale Fascista aveva costretto il Podestà a prendere una decisione: altrimenti avrebbe informato il Segretario Provinciale dell’ostruzionismo del primo cittadino al volere del Duce.
E fu così destinato a diventare Orto Fascista un piccolo appezzamento di terreno, pieno di sassi ed erbacce, situato in fondo al paese, giù verso il fiume, requisito a un contadino, tale Bettino Brichetti, notoriamente antifascista.
Dopo che le squadracce in camicia nera gli propinarono tre abbondanti bevute di olio di ricino nello spazio di due mesi, egli abbandonò il paese rifugiandosi, così si diceva, presso un parente nella pacifica Svizzera.
Giunto all’Orto Fascista, il Federale di Brescia scese dalla vettura, che aveva percorso gli ultimi cento metri della strada sballonzolandolo a causa del pessimo stato dell’acciottolato.
Ad imitare il Duce – tutti i gerarchi cercavano di farlo – appoggiate le mani ai fianchi, petto in fuori, pancia in dentro, aveva, con voce tonante, iniziato ad arringare la folla sostenendo “l’importanza vitale di queste istituzioni che in tempo di guerra e in attesa dell’immancabile vittoria finale, assicuravano all’Italia combattente cibo sicuro, e ai giovani, con la coltivazione del campo, la partecipazione al raggiungimento del traguardo fascista che voleva l’Italia autosufficiente in tutto”.
In effetti il campo non misurava più di 30 metri per lato, era infestato da erbaccia ostinata, pungente e primordiale e pareva chiaro che la qualità del terreno non avrebbe potuto generare che qualche stentato tubero.
Mentre parlava, il Federale si accorse che, nel tentativo di mascherare una poco maschia pancetta e trattenendola il più possibile, i suoi pantaloni, non più sostenuti dalle abituali rotondità, stavano scivolando verso il basso. Si affrettò così a concludere il discorso e, dopo aver urlato con la completa estensione delle sue corde vocali “DUCE” ed aver ricevuto in risposta un altrettanto roboante “A NOI!!!!”, si era chinato rapidamente verso un cuscino nero, portato da un Figlio della Lupa, ovviamente in divisa.
Dal cuscino, sul quale era ricamato in oro un fascio littorio, aveva prelevato un paio di luccicanti forbici ed aveva tagliato, tra gli applausi, un simbolico nastro tricolore che due avanguardiste, in camicia e calze bianche, basco e gonnellina nera, tenevano teso all’altezza di un varco nella siepe che delimitava il campo.
Il Podestà, che era stato sino a quel momento in disparte in doveroso silenzio, si avvicinò al Federale, gli strinse, con devozione e quasi genuflettendosi, la mano e passò quindi a presentare alcune dame intervenute alla cerimonia, alle quali il Federale, battendo romanamente i tacchi dei lucidissimi stivali, fece un cavalleresco baciamano. Fra le signore spiccava per statura e bellezza la moglie del Podestà, signora Lucia, maestra presso le locali scuole, che era stata nominata “Custode dell’Orto Fascista”.
Fu quindi la volta dei notabili: il Pretore Battipede, il Direttore del locale ospedale, prof. Parola, l’avvocato Vitali, squadrista della prima ora, il medico condotto, dott. Pasqualicchio, il Maresciallo dei Reali Carabinieri ed il Prevosto, mons. Cappelletti che, dopo l’ossequio, chiese al Federale l’autorizzazione alla benedizione del campo “ove, con l’aiuto di Dio, per maggior gloria del Duce, senza esborso di alcun talento, giovani mani avrebbero dal terreno tratto frutti in abbondanza”.
Dopo il pranzo presso il miglior ristorante del paese, ribattezzato per l’occasione Ristorante Impero, il Federale se ne era ritornato a Brescia, portando con sé il ricordo dell’affascinante moglie del Podestà. Da quel giorno i suoi pensieri più ricorrenti erano ispirati dal Duce e dalla sublime visione della signora Lucia.
Archiviata la cerimonia, venne abbandonato, almeno per il momento, anche ogni progetto di coltivazione dell’Orto Fascista. Le notizie che arrivavano sull’andamento della guerra, pur se efficacemente censurate, facevano intravedere la debolezza dell’Italia e creavano qualche imbarazzo all’amministrazione fascista. Ma, passata l’estate ed avvicinandosi l’apertura delle scuole, la signora Lucia, o meglio la maestra signora Lucia, come tutti la chiamavano, si ricordò di essere stata nominata “Custode dell’Orto Fascista”.
Bisognava che all’inizio dell’anno scolastico si provvedesse alla nomina di squadre di bambini, della quarta e della quinta classe, perché si dedicassero alla nuova incombenza procedendo alla semina di qualche ortaggio o di patate, piante adatte al povero terreno.
CAPITOLO I|
La signora maestra era diventata moglie del Podestà, il rag. Benvenuto Bertoli, ai tempi impiegato di buon livello della direzione della Banca di Valle Camonica, perché, stufatasi di “correre la cavallina”, aveva pensato bene di accasarsi con l’ultimo dei suoi amanti.
Aveva fatto la moglie fedele per qualche tempo ma, quando il marito le confidò le sue mire politiche, pensò di potergli dare una mano circuendo qualche pezzo grosso del fascismo locale.
Le grazie non le mancavano, l’esperienza nemmeno. Il marito, facendo finta di nulla vedere e nulla sentire, non la ostacolava certo. Il gioco le piaceva, appetiti sessuali ne aveva, trascurata sempre più dal coniuge che, finito il lavoro in banca, si dedicava anima e cuore al Partito. Cominciò quindi a darsi da fare.
A 37 anni era, probabilmente, all’apice della sua bellezza.
Un paio di gambe lunghe e ben tornite sorreggevano due chiappe sode che formavano un gran bel sedere. I fianchi, un po’ larghi, terminavano in una vita snella e priva di qualsiasi traccia di grasso. Il seno, alto e pieno, non era particolarmente grande ma prominente, i capezzoli piccoli sembravano, come direbbe il poeta, due ciliegie mature. Il viso, modellato da lunghi capelli neri sempre ben pettinati, era dominato da un paio di occhi verdi che, secondo la luce del giorno, sfumavano verso l’oro.
Un gran bel pezzo di donna, insomma.
La prima occasione si era presentata l’anno successivo al matrimonio, quando la maestra era stata mandata, insieme a due colleghe, ad accompagnare le classi quarta e quinta a Pisogne, all’inaugurazione del nuovo pontile sul lago d’Iseo, chiara opera in stile fascista con i pali di sostegno della passerella trasformati in fasci littori.
Vi partecipavano tutte le autorità della valle ed era stata assicurata anche la presenza del Segretario Provinciale del partito “se non occupato in altri importanti incarichi”.
Il Segretario, tale Manucelli Abramo, era un reduce della guerra di Spagna, ove si era messo in vista per la collaborazione e per il servilismo che aveva dimostrato nei riguardi dei franchisti e si era specializzato nell’interrogatorio dei “rossi” che cadevano nelle loro mani. Non lo faceva con cattiveria, ma con la furbizia caratteristica dei contadini lombardi, e riusciva a far dire agli avversari cose che non avrebbero confessato nemmeno tra dolorose torture.
Ben altra storia aveva vissuto in Africa. Pochi giorni dopo essere arrivato in Libia aveva contratto l’ameba, una brutta infezione che dava febbri abbastanza brevi ma violentissime, precedute da brividi, tremori e spasmi muscolari che lasciavano, al loro scomparire, una spossatezza totale e dolori alle articolazioni. Dopo il primo attacco era stato immediatamente rimpatriato e la sua avventura in terra d’Africa definitivamente chiusa.
Il Manucelli era soprannominato “longa manus”, sia perché curava gli interessi lombardi di alcuni pezzi grossi del fascismo trasferiti a Roma al seguito del Capo, sia perché, appena possibile, cercava di palpeggiare le parti morbide di qualsiasi donna gli capitasse a tiro.
Egli, che già soffriva di complessi per il nome che i genitori gli avevano appioppato, più difficile da portare ora che le leggi razziali stavano per essere promulgate, in effetti non aveva mai combinato molto con le donne, ma lasciava che la leggenda sul suo conto proliferasse.
Era sempre in caccia e attentissimo a cogliere qualsiasi occasione propizia.
La maestra e le sue colleghe erano arrivate a Pisogne con il trenino che percorreva la Val Camonica e arrivava sino a Brescia, in divisa regolamentare: camicia e calze lunghe e bianche, gonna e scarpe nere, basco nero sulle ventitré, molto civettuolo.
Lucia era veramente uno splendore e attirava lo sguardo compiaciuto di molti presenti, uomini e donne.
Le colleghe decisero che sarebbe salita lei sul palco delle autorità in rappresentanza della loro scuola. Nonostante non ne avesse assolutamente voglia, dovette accettare per l’insistenza delle altre maestre. Nel frattempo era arrivato il Manucelli, a bordo della solita vettura decapottabile, tra gli urlacci dei camerati che inneggiavano al Duce e al suo devoto Segretario della provincia di Brescia. Ancora sull’auto, rimanendo in piedi sul predellino che gli permetteva di non mostrare la statura assai bassa, il Manucelli sfoderò ampi saluti romani verso il palco, alla sua destra, alla sua sinistra e, non si sa per quale ragione, anche verso il lago. La cosa non sfuggì al solito gruppetto di elementi contrari al Regime che, pur rischiando la consueta purga a base di olio di ricino, sghignazzarono rumorosamente.
Il Segretario, nel tentativo di manifestare giovinezza e forza fisica, raggiunse il palco saltellando da uno all’altro dei pochi scalini che vi salivano. Ancora una volta si rivolse ai presenti accettando gli applausi e salutando romanamente.
Il palco si era riempito delle autorità e dei rappresentanti delle varie associazioni e scuole che, strattonandosi senza alcun riguardo, cercavano di portarsi in prima fila vicino al Manucelli.
In tutto questo trambusto Lucia, che avrebbe preferito rimanere defilata, si trovò spinta a fianco del Segretario che la guardò intensamente, spogliandola con lo sguardo e rimanendone assolutamente soddisfatto.
L’ingegnere Domeneghini, progettista del pontile e Direttore dei lavori, nonché, guarda caso, Podestà del paese, si avvicinò al microfono e, cercando di non dare le spalle al Segretario Provinciale, iniziò a parlare dando il benvenuto alle autorità, ai capi delle rappresentanze e a tutti i presenti, passando, poi, ad illustrare la nuova opera voluta dal Fascismo e dal suo Duce per il miglioramento della navigazione sul Lago di Iseo.
Appena il Domeneghini iniziò a parlare, Lucia sentì una mano palpeggiare la sua chiappa sinistra, scendere velocemente verso la parte interna della coscia per ritornare poi da dove era partita prendendone decisamente possesso.
Il primo istinto fu di rifilare un gran ceffone al cafone che si era permesso tali avances, ma, immediatamente, si rese conto che il palpeggiatore non era altri che il Segretario Provinciale e che tra lei e la folla non c’era che qualche metro. Avrebbe quindi provocato uno scandalo e una sicura ritorsione nei suoi confronti e in quelli di suo marito. E poi… tutto sommato, quella strizzatina non le dispiaceva per nulla.
Per fortuna il Domeneghini non si addentrò nei particolari tecnici che avevano permesso la realizzazione dell’opera, cosa che, pedantemente, cercava di infilare sempre nella presentazione delle costruzioni realizzate su suoi progetti. Progetti che, riteneva, comprendessero sempre soluzioni ardite ed innovative.
Si limitò a spiegare come la parte mobile del pontile si sarebbe comportata in situazioni di secca del lago o, al contrario, di aumento dell’altezza della superficie dell’acqua, e terminò inneggiando al Partito Fascista e al suo Duce “ispirato direttamente da Dio per rendere l’Italia grande e forte tra le nazioni civili!”.
Poi il solito “DUCE!” con l’immancabile risposta della folla “A NOI!”.
Dopo il Domeneghini fu il Segretario Provinciale a prendere la parola. Il discorso, nella sua ovvietà, fu brevissimo, come se il Manucelli avesse altro per la testa, e chi pensò questo certamente non sbagliava.
“Camerati, siamo qui riuniti per ringraziare ancora una volta il nostro Duce supremo che, nonostante i grandi problemi che lo assillano, ha desiderato che venisse compiuta questa opera per il miglioramento della vita del suo popolo. Come figli grati facciamo voti perché, col sostegno della nostra riconoscenza, possa avere la forza di continuare a guidarci verso l’immancabile vittoria finale”.
Scroscio di applausi. “Duce a noi! Eia! Eia! Alalà!”
Dopo la benedizione della nuova opera da parte del Parroco di Pisogne, l’assemblea si sciolse e il Manucelli chiamò a sé un gruppo di suoi seguaci con i quali discusse animatamente per diversi minuti, dando a ciascuno un compito da portare a termine.
Ci si trasferì quindi in municipio ove, nella sala consiliare, era stato predisposto un ricevimento al quale parteciparono praticamente tutti quelli che erano stati sistemati sul palco delle autorità.
Lucia si staccò dal gruppo cercando di raggiungere le sue colleghe e i bambini, ma fu dissuasa dal farlo, presa letteralmente per un braccio da un milite fascista che, senza fornire alcuna spiegazione, la accompagnò in municipio. Erano già le 17: Lucia era sulle spine perché lei e le sue colleghe dovevano prendere il trenino della linea Brescia- Edolo, detto il Gamba-de-legn a causa della sua lentezza, che partiva da Pisogne per Breno alle 17.25.
Va be’ che uno dei vanti del fascismo era la puntualità dei treni, ma ciò si riferiva alle linee primarie (che erano poi la Milano-Firenze-Roma-Napoli e la Torino-Milano- Venezia) mentre nelle secondarie, che ricoprivano la maggior parte della rete, regnava il caos più assoluto. Immaginatevi una linea morta come la Brescia-Edolo, che collegava paesini sperduti della Valle Camonica nella quale la maggior parte degli abitanti non era in grado di leggere neppure un orario ferroviario. Il Gamba de legn viaggiava a vista e forse il macchinista era uno di quelli che ignorava gli orari e non aveva così gran fretta di raggiungere
la meta. Abitualmente, comunque, portava ritardi di varie decine di minuti che potevano dilatarsi sino ad oltre un’ora, indipendentemente dalle situazioni atmosferiche.
Entrata nella sala consiliare, Lucia si trovò ben presto vicino il Manucelli che con assoluta gentilezza e, quasi, deferenza volle sapere chi fosse, perché si trovasse a Pisogne… ecc. ecc.
Lucia diede tutte le risposte tenendo pudicamente il capo piegato verso il basso, e poi, spiegando che doveva aiutare le sue colleghe a sistemare gli scolari sul vagone del treno loro riservato per ritornare a Breno, si scusò e chiese il permesso di ritirarsi. Il Manucelli, con un sorriso ambiguo sulle labbra, si dimostrò comprensivo e, dopo aver tenuto molto più del necessario per un saluto la mano di Lucia, con un galante inchino ed un batter di tacchi gliela baciò rumorosamente, rimanendo poi lungamente a guardarla mentre si allontanava.
La storia, quella con la S maiuscola, non riuscì mai ad accertare se in effetti il motore del “Gamba de legn” quella sera si mise a fare le bizze motu proprio, o se qualcuno gli diede un aiuto. Fatto sta che quella sera il trenino, arrivato a Pisogne, non volle in alcun modo riprendere la strada verso Breno.
Non esisteva altro mezzo capace di trasportare i 42 bambini e le tre insegnanti sino al paese di origine, ma anche se si fosse riusciti a rintracciare una decina di automobili tra Pisogne ed i paesi vicini, sarebbe stato impensabile, in periodo di autarchia, usare un così cospicuo quantitativo di benzina per effettuare il viaggio. Si decise, quindi, di rimandare la partenza della scolaresca sino a quando il treno non fosse stato messo in condizione di ripartire.
A Pisogne esisteva una bella Colonia Elioterapica dell’Opera Nazionale Fascista – anche se la stessa era stata costruita con la manovalanza degli alpini e con i contributi raccolti dall’Associazione Nazionale Alpini della Valle Camonica. Fu quindi presa la decisione di riaprirne un’ala e di mettere a disposizione due camerate con 42 lettini più due letti destinati alle sorveglianti.
All’indomani scolaresca ed insegnanti avrebbero fatto ritorno alle loro case. Dalla Stazione dei Reali Carabinieri di Pisogne fu inviato un fonogramma ai colleghi di Breno affinché le famiglie fossero avvisate e tutti dormissero una notte tranquilla.
Già, due letti per adulti. Ma le maestre erano tre! Nessun problema: una avrebbe dormito in albergo. Caso strano, anche questa volta fu scelta Lucia e, caso ancora più strano, nell’albergo destinato ad ospitare Lucia aveva la stanza anche il Segretario Provinciale.
I bambini furono rifocillati alla bell’e meglio. D’altra parte pochi avevano appetito, eccitati come erano dalla novità che li faceva sentire in vacanza.
Lucia, che era stata nominata dal Direttore responsabile della comitiva, ancora una volta non voleva lasciare bambini e colleghe ma non poté desistere, data l’insistenza delle due maestre e dato che il Segretario, che ben conosceva suo marito, le aveva fatto pervenire un invito ufficiale alla cena che si teneva nel ristorante dell’albergo ove le era stata riservata la stanza.
Al suo arrivo in albergo, Lucia non riuscì neppure a salire nella camera a lei destinata per darsi una rinfrescata, perché la cena stava per essere servita e tutti i commensali erano già seduti a tavola. Entrando nella sala del ristorante si accorse che un solo posto era ancora libero, ovviamente a lei destinato: quello alla destra del Manucelli.
Quindi vi si sedette, accolta da un gran sorriso del Segretario, un sorriso strano, quasi da conquistatore, al quale seguì una frase che la lasciò alquanto perplessa: “Uno splendido fiore dovrebbe essere circondato da miglior compagnia. Spero non mancherà tempo perché possa ricevere gli omaggi dovuti!”
La cena si trascinò tra insulsi discorsi e numerosi brindisi, naturalmente al Duce, all’opera quel giorno inaugurata, al suo progettista… ecc. ecc. Mentre stavano servendo il caffè, o meglio, il surrogato del caffè – un miscuglio di estratto di cicoria e di altre erbe di prato – il Manucelli sussurrò a Lucia:
“Io devo risolvere qualche piccolo problema, ma quando arriverò alla mia camera, la 122 – e qui depositò nella mano di Lucia la chiave della stanza – spero, anzi sono sicuro, di trovarci il fiore più bello che mai abbia incontrato”.
Lucia arrossì violentemente, e salutando con un inchino tutti i presenti, lasciò la sala del ristorante.
Prima di salire le scale dovette fermarsi a sedere su una poltrona che si trovava ai piedi della scala, perché le gambe non la reggevano. Doveva calmarsi, ragionare più freddamente possibile per decidere se ignorare la proposta – l’ordine? – del Manucelli o se assecondare il suo desiderio.
Di mezzo ci poteva anche essere il futuro politico del marito e poi, se avesse deciso di incontrare il Manucelli, sarebbero state corna quelle fatte a un coniuge che gradiva qualsiasi sua collaborazione per ingraziarsi le alte sfere? Doveva sentirsi un’eroina, perché si immolava per il bene del marito, o una poco di buono perché, in fin dei conti, l’invito ricevuto la intrigava? Ci pensò su per una decina di minuti e poi decise di giocarsi l’avventura.
Con le gambe che ancora le tremavano salì le scale e si diresse alla camera 122.
Intanto il Manucelli stava discutendo con i suoi accoliti del programma del giorno seguente, ma non si sentiva molto bene. Aveva qualche brevissimo brivido di freddo ed un certo nervosismo interno, ma ritenne che i primi potessero attribuirsi al cibo pesante e abbondante che aveva ingurgitato, e il secondo all’avventura che stava per vivere.
Lasciò anche lui la sala da pranzo ma stava ancora meno bene e faticò a salire le scale.
Quando aprì la porta della sua stanza e intravide, nel buio, la sagoma di Lucia, dimenticò qualsiasi malessere e si sentì rinascere. Rimase un attimo al buio, quasi incredulo di quale fortuna gli fosse capitata, ma poi accese decisamente la luce ed ammirò con vivo piacere quanto aveva davanti. Non sapeva bene come iniziare l’abbordaggio, ma decise di essere gentile e, se possibile, spiritoso.
“Vado un attimo in bagno ma quando ritorno spero di poter vedere qualcosa di più di questo bel fiore”.
Anche Lucia non sapeva bene come comportarsi. Tanto per cominciare, si sbottonò il vestito e lo lasciò cadere a terra, rimanendo in guêpière e calze di seta e si rimise ferma, quasi sull’attenti, in mezzo alla stanza, dando le spalle alla porta del bagno come a lasciare qualsiasi iniziativa al suo prossimo amante.
Il Manucelli intanto, in bagno, si stava lavando i denti ma, improvvisamente, fu scosso da brividi violenti e da un tremore che non riusciva a controllare. Capì subito che una violenta febbre lo stava assalendo e gli venne impellente il desiderio di stendersi per non cadere. Spalancò la porta e crollò sul letto quasi privo di conoscenza.
Lucia non si mosse per qualche secondo, non riuscendo a comprendere quale gioco amoroso il suo partner volesse praticare. Non aveva la forza di girarsi. Sentiva il letto scricchiolare sotto gli spasmi del Manucelli e un suono quasi di nacchere che, ben presto se ne rese conto, era provocato dallo sbattere dei denti dell’uomo. Alla fine si voltò e vide il Segretario Provinciale, terreo in volto, ballonzolare sul materasso, il viso contratto in un ghigno che dimostrava grande sofferenza.
Lucia non sapeva cosa fare. Gli si accostò, istintivamente gli mise una mano sulla fronte e quasi si scottò. Il Manucelli doveva avere la febbre a quaranta! Che fare? Corse in bagno, bagnò una salviettina da bidet e la pose sulla fronte del malato che rispose con un mugolio di piacere e riconoscenza.
Ben presto la salviettina divenne calda e lei la rimosse, corse in bagno, la mise sotto il rubinetto dell’acqua fredda, la strizzò e ritornò in camera riposizionandola sulla fronte. Il tremore stava esaurendosi, probabilmente perché la temperatura aveva raggiunto una certa stabilità. Trovò in bagno un’altra salvietta e una bacinella. La riempì, vi immerse la salviettina ed andò a sedersi sul letto di fianco al Manucelli.
Cominciò a cambiare sistematicamente ogni dieci minuti le pezzuole sulla fronte del malato, il quale sembrava essersi assopito e solo ogni tanto allungava una mano per accarezzare la coscia di Lucia, quasi volesse accertarsi della sua presenza.
Così passò la notte. Alle sei la donna, in punta di piedi per non svegliare il Segretario che sembrava caduto in un sonno ristoratore, lasciò la stanza, uscì dall’albergo e si incamminò verso la Colonia Elioterapica.
Alle otto il Manucelli si svegliò. Si sentiva come se lo avessero bastonato in tutto il corpo ed era debole come non si era sentito mai.
Con estrema fatica si alzò, andò in bagno e si fece, con mano malferma, la barba. Si pettinò e scese al bar dell’al bergo per prendere un caffè. Al bar erano già presenti buona parte dei suo scagnozzi che avevano saputo dall’albergatore che il loro capo si era portato in camera la bella maestra di Breno, con la quale aveva passato la notte.
All’apparire del Manucelli stavano per applaudirlo per la nuova avventura, ma rimasero bloccati nel vederlo invecchiato di 10 anni, bianco in volto, con un paio di occhiaie violacee e quasi incapace di restare diritto. Che femmina doveva essere quella maestra signora Lucia per essere riuscita a ridurre il leggendario Segretario Provinciale in quelle condizioni!