di Federica Biglino – In quella parte del libro della mia memoria che riguarda l’età scolare, si trova un capitolo sulla visita alla Vittoria alata della classe elementare 5B.
Me la ricordo ancora lì, alla fine di un lungo corridoio, in gloria come una regina.
Bellissima, imponente, annullava con la sua sola presenza le vetrine espositive delle altre meraviglie custodite al Museo dell’età romana allora collocato nelle sale superiori del tempio capitolino. Posso dire che fu amore a prima vista.
Anni dopo, grazie a 25 anni di professione di guida turistica ( compreso il doloroso stop obbligato del 2020), l’ho ritrovata al Museo di santa Giulia in uno spazio dedicato solo a lei, come si addice a una diva.
D’Annunzio, Carducci, Emilio Isgrò.. quanti sono gli artisti colpiti e ammaliati dal fascino senza tempo di questa immagine. Il profilo delicato, l’espressione assorta, l’elegante panneggio della veste, le braccia alzate a reggere uno scudo invisibile… un’immagine di femminilità decisa e forte, solida e delicata allo stesso tempo.
Il sapiente restauro eseguito dall’Opificio delle pietre dure di Firenze ce l’ha restituita in forma smagliante. Come mai prima, possiamo gustare ogni particolare della sua squisita fattura.
Nella suggestiva cornice dell’allestimento curato dall’ archistar Navarro Badeweg, si possono studiare particolari prima resi invisibili dall’ossidatura del tempo: le penne delle ali realizzate con molta cura, i chiaroscuri del panneggio, i rametti di mirto della coroncina dell’acconciatura, persino le unghie dei piedi… e il lucido colore del bronzo, il colore della terra, quella su cui da secoli appoggia, miracolo d’equilibrio, un solo piede…
Vittoria brixiensis. Un bellissimo simbolo, un simbolo di rinascita. Così sarà apparsa alla folla festante che la vide sfilare la prima volta issata su un carro nel lontano luglio 1826. Finalmente viva dopo secoli di sepoltura e di oblio. Un auspicio per coloro che vivevano sotto il dominio straniero.
L’immagine della resilienza tenace, della promessa di in volo senza catene. Non un Marte impavido o un Giove tonante. Una dea, simbolo di forza, grazia e dignità.
Quasi a voler dare una maggiore autorevolezza a questo simbolo, per anni gli studiosi hanno avvalorato l’ipotesi che Vittoria in realtà sia nata Venere e in seguito sia stata trasformata da dea dell’amore e della femminilità a dea che richiama echi di battaglie e cozzare di scudi. Come a dire che l’immagine femminile che evochi forza e grazia nello stesso tempo debba essere bellissima.
Ma Vittoria è sempre e solo stata Vittoria. Adesso anche gli studiosi ce lo confermano. Solida, possente, non necessariamente bella e delicata. Anche in questo incarna, a mio parere, il verace animo bresciano, e lo conferma il fatto che con ogni probabilità è stata realizzata in qualche fonderia del bresciano o del nord Italia, già attiva in epoca romana.
Ecco, il cerchio si chiude. La forza e la solidità bresciana si uniscono alla grazia e alla pazienza di chi sa lavorare e attendere tempi migliori per spiccare il volo.
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