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Il nuovo Pd di Zingaretti, oltre Renzi e non solo | di Claudio Bragaglio

di Claudio Bragaglio* – Sulla vittoria di Zingaretti son diverse le interpretazioni, anche del senno di poi. Ma, a mio parere, vanno individuate le ragioni di fondo. Guardando l’albero del PD, al di là dell’estetica della sua chioma, dalla parte delle radici più profonde. Quindi ben oltre la frattura stessa tra pro e contro Renzi, che s’è risolta nelle Primarie. Senza “vis polemica”, ma neppure con le reticenze di taluni: “renziani” di ieri e “zingarettiani” d’oggi.

Ciò che oggi risulta acquisito – penso anche a recenti interviste del Sindaco Emilio Del Bono, fatte dopo l’esito pro Zingaretti – è il cambiamento della linea politica del PD. Infatti, il ritenere indispensabile il sistema delle alleanze politiche e civiche, che trascina con sé anche quelle sociali, significa modificare l’atto fondativo del PD. Quello della “vocazione maggioritaria”, dell’autosufficienza, del bipartitismo e d’un sistema elettorale ad esso funzionale, della coincidenza del leaderismo di partito e di governo.

Si dirà: è solo un problema di diversi, ma opinabili “modelli” politici. No. Si tratta invece d’un diverso modo d’intendere i rapporti tra politica e società, tra sistema partitico ed il Paese. Si tratta del cuore d’una diversa rappresentanza politica. Del valore delle mediazioni sociali. Del rifiuto d’una “autonomia del politico”, del tutto “disintermediato” dalle forze sociali, produttive e sindacali, in un quadro – per quanto soft – di tipo neoliberista.

Il modello del bipartitismo, ch’era sotteso al PD veltroniano del 2007, oggi è stato superato in ragione della sua sconfitta. Questo il punto di dolorosa verità. Rappresentò allora il tentativo di fuoriuscire dal fallimento dell’Unione non già recuperando lo spirito federativo dell’Ulivo originario, ma con l’ambizione d’un “partito unico” che andasse anche oltre il valore del pluralismo delle sue componenti, in particolare cattolico-popolare e della sinistra riformista.

Parlo quindi di cose che precedono la “débâcle” del Referendum del 2016 e delle elezioni del 2018. Infatti, il PD non ha mai vinto a livello parlamentare, anche quando in Comuni, Province e Regioni il PD vinceva col Centro Sinistra. O alle europee del 2014, con il suo 40%.

Perché alludo alla fragilità delle radici stesse del PD? Perché già prima del PD il bipartitismo cercò d’imporsi ed è stata questa una delle cause della crisi dell’Ulivo, come soggetto plurale.

Tutto ciò lo si ritrova già nel “partito unico” su cui si giocò lo scontro tra chi intendeva liquidare così l’anomalia della sinistra italiana (Parisi, con il suo modello americano) e chi (D’Alema, con il modello europeo) pensava ad un unico “partito riformista” di ispirazione socialista, come evoluzione di Pci-Pds-Ds, rimuovendo la peculiarità italiana del cattolicesimo politico-sociale.

Si tentò persino con ben due Referendum (1999 e 2000, falliti per mancato quorum) di togliere di mezzo la compresenza di maggioritario e di proporzionale. Il punto di equilibrio su cui reggeva il principio “coalizionale” del Mattarellum. E dell’Ulivo. Lo stesso che – grosso modo – ci siamo ritrovati nel Rosatellum. Ma proposto – come capolavoro d’un suicidio – da parte d’un PD nazionale che nel frattempo aveva distrutto nel decennio alleanze e coalizioni!

Come sia stata possibile la pretesa di far convivere nel PD due linee tra loro così confliggenti lo sa solo il Padreterno. Una linea nazionale – rigidamente bipartitica- che per affermare il carattere maggioritario del PD doveva per forza “liquidare” la concorrenza di altri soggetti concorrenti del Centro Sinistra, facendo il deserto attorno a sé. Dall’altra invece, un PD che – in Regioni, Province e Comuni – per vincere doveva fare l’esatto opposto, ovvero costruire ampie coalizioni politiche e civiche. Come è avvenuto anche a Brescia, da Martinazzoli, a Corsini, fino a Del Bono. Per non dire anche d’un ultimo esempio calzante: la scelta dell’on. Guido Galperti di distacco dal PD. Nel primo caso – di bipartitismo – tale distacco sarebbe risultato un “tradimento”, nell’altro – con il maggioritario di coalizione – invece come un contributo tra i più qualificati dato dalla sua Lista Civica per il successo di Del Bono. Quindi, con lo stesso identico Galperti – a seconda delle occasioni, nazionale o locale – esposto a fischi od applausi!

A mio parere la stessa “innaturale” scelta d’un bipartitismo non rappresentativo del Paese, nel suo pluralismo, territoriale culturale e sociale, nonché l’autoisolamento del PD nazionale hanno concorso a creare lo spazio del populismo e per lo stesso M5S. Non è un caso, infatti, come nel sistema locale, proprio in ragione d’una maggiore rappresentatività delle coalizioni di Centro Destra e di Centro Sinistra, il M5S non abbia raccolto consensi analoghi a quelli nazionali.

Su Renzi poi si può dire tutto ciò che è stato detto. Come pure sulla sua “egolatria”.  Ma prima di considerare la sua sconfitta – anche solo per onestà politica – è necessario dare risposte sulla natura della sua vittoria su Bersani. E sul perché il tentativo di Bersani (agosto 2010) di far rinascere un “Nuovo Ulivo” non abbia avuto seguito. A mio parere, infatti, la linea di Renzi non ha rappresentato un deragliamento dal PD veltroniano, quanto piuttosto – seppur a modo suo – una continuazione.

Quanto fatto nel Paese dai vari PD di questi anni non offre l’idea che il quadro nazionale è diverso in quanto più complicato del sistema locale. Ma piuttosto – duole dirlo – che vari gruppi nazionali che si sono avvicendati siano stati spesso su un pianeta diverso dal Paese reale. Per questo vedo in Zingaretti non soltanto l’orizzonte che va “oltre la siepe” di Renzi e del renzismo, ma un riposizionamento strategico, la nascita d’un nuovo PD, anche rispetto al 2007. Che vede il proprio stesso futuro affidato alla costruzione, plurale e federativa – da Calenda, a Pisapia ed oltre – d’un nuovo Centro Sinistra, come alternativa di governo nel Paese.

  • Presidente della Direzione lombarda del PD

 

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Redazione BsNews.it

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