(a.t.) Il suo nome è legato da sempre a quello dell’azienda di famiglia, di cui Ettore Lonati è presidente. Una storia operosa e silenziosa, fatta di molta più attenzione all’impresa che ai giornali. Dell’impero economico costruito con duro lavoro dal 1945, che dà lavoro a migliaia di persone, molti giornali non hanno nemmeno mai fatto cenno. Salvo poi correre a stampare ben in evidenza nel titolo quel cognome – che rappresenta un pezzo della storia migliore di Brescia – quando è scattata l’indagine sui presunti finanziamenti illeciti di diversi imprenditori al comitato elettorale di Nicoli. E così avevano fatto altri quando era scoppiato nel 2005 il caso Bnl-Unipol: “indagati eccellenti”, dicevano i titoli a nove colonne per vendere qualche copia in più. Ma per i lettori quelli citati erano imputati e già colpevoli. Peccato che nelle ultime settimane – un anno dopo il primo caso, cinque anni dopo il secondo – siano arrivate per Ettore Lonati due assoluzioni con formula piena (o meglio: Nicoli è stato assolto nei giorni scorsi, ma Lonati sul caso era già stato prosciolto a maggio). E il cognome è tornato sui giornali. Stavolta, però, non nei titoli. Ma in qualche riga di un box perso nella parte bassa delle pagine di economia.

Dottor Lonati, giustizia è fatta?
Ho fatto tutto alla luce del sole. Sono sempre stato sereno e la mia fiducia nei confronti della giustizia non è mai venuta meno: confidavo nell’assoluzione, che “puntualmente” è arrivata. Semmai il rammarico è un altro.

Quale?
Sono molto amareggiato per come i media hanno trattato l’argomento, sbattendo nomi e cognomi in prima pagina senza nemmeno approfondire la questione.

Qualcuno le potrebbe rispondere che i giornali hanno fatto il loro lavoro, limitandosi a riportare i nomi di persone coinvolte in un’indagine.
Lungi da me pensare che non dovessero scrivere di quei fatti. Ma avrebbero potuto farlo in maniera diversa, più rispettosa delle persone coinvolte. Ricordo che stiamo parlando di innocenti. Innocenti perché per legge lo siamo tutti fino al terzo grado di giudizio. Ma soprattutto innocenti perché sono stati i giudici poi, ben prima del terzo grado, a decretare che il mio comportamento e quello di altri – in entrambi i casi – è stato sempre al di fuori di ogni sospetto. Un po’ di serietà in più nel trattare l’argomento e una telefonata quando è uscita la notizia non avrebbero certo limitato il diritto-dovere dei giornali, che rispetto profondamente, di trattare l’argomento.

Dunque cosa non funziona?
L’istituto dell’avviso di garanzia dovrebbe servire a tutelare gli indagati. Non a dare in pasto nomi di persone innocenti ai giornali. Questo problema è toccato a quasi tutti i maggiori imprenditori italiani, e i processi nella maggior parte dei casi hanno decretato la loro innocenza. Io ho le spalle larghe. Ma ci sono troppe di persone che finiscono nei titoli dei giornali come colpevoli quando non lo sono affatto. E la loro vita, in quell’istante, è già rovinata: nella reputazione, nella salute e nel portafoglio. Un piccolo imprenditore, per un problema del genere, avrebbe rischiato l’azienda e messo sul lastrico decine di famiglie. Vero. Ma l’informazione troppe volte strizza l’occhio ai lettori pur di campare anche a costo di perdere in etica.

Esiste una soluzione al problema?
Quando in ballo ci sono persone, famiglie, affetti, storie e aziende bisognerebbe avere almeno il buon senso di scavare più a fondo nelle questioni per essere certi di ciò che si dice. Evitando di fare di tutta l’erba un fascio, perché la responsabilità è sempre personale. E soprattutto evitando i sensazionalisti. L’istinto a “sbattere il mostro in prima pagina”, come in un film di Bellocchio, deve venir meno. Non si può barattare la dignità di una persona con qualche copia in più in edicola, anzi, a lungo andare, le testate venderebbero di più crescendo in autorevolezza. L’informazione deve contribuire alla crescita morale del Paese, non assecondarne gli istinti più bassi. 

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Redazione BsNews.it

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