di Lucia Marchesi – Parliamo di… parlare. Del nostro modo di parlare, della nostra cadenza, dei nostri modi di dire. Perché non so voi, ma io sono veramente esausta di sentire che in tv la parlata romana e quella napoletana sono tollerate, se non addirittura apprezzate, mentre quella bresciana, e più in generale quella lombarda, sono sempre derise.
Eppure anche la nostra parlata, sicuramente meno poetica di quella fiorentina, ha un suo fascino e una sua identità. Noi lombardi siamo perfettamente in grado di distinguerci. Agli occhi, anzi alle orecchie, di un siciliano, bresciani e bergamaschi parlano nello stesso identico modo, ma noi ci riconosciamo anche con una sola parola.
Vero è che abbiamo dei modi di dire che ormai sono entrati nel nostro linguaggio quotidiano, ma che ci rendono assolutamente incomprensibili ai nostri connazionali.
L’esempio più lampante? “In parte”. Quanti di noi hanno visto inorridire la maestra quando nei primi pensierini scrivevamo «Conoscevo già il mio compagno di banco, perché abita in parte a me»? A nulla sono serviti i rimproveri degli insegnanti di ogni grado di istruzione. Per i bresciani, “in parte” significa anche “accanto”, e non solo “parzialmente” come hanno disperatamente cercato di farci capire.
Così come non sono mai riusciti a farci perdere l’abitudine, al liceo, di chiamarci “gnare”. «Si dice ragazze!» tuonava inutilmente l’insegnante di italiano. Vabbeh, pensavamo noi, se non lo scriviamo nei temi ma ci limitiamo a chiamarci così tra di noi, che c’è di male? Tra l’altro, i “gnari” di oggi tra di loro si chiamano “veci”. Mi sembra decisamente peggio.
Insomma, non abbiamo alcun problema a capirci tra di noi. Il problema sorge quando ti iscrivi all’università, e conosci ragazzi che vengono da altre province.
Primo trauma. Milanesi e cremonesi non usano, come noi, il diminutivo “profe”. Loro dicono “prof”. E ti spiegano anche che è più corretto, perché effettivamente l’abbreviazione di “professore” è “prof”. Non avevo mai pensato a questa regola. Ciò non toglie che a Brescia il professore si chiama “profe”: se non è la corretta abbreviazione, possiamo considerarlo un simpatico vezzeggiativo.
Eh sì, perché ovviamente anche lo “slang” giovanile varia a seconda della provincia. All’università ho scoperto che, a Bergamo, “marinare la scuola” non si dice “bruciare”, come da noi. Si dice “impiccare”. Mi hanno anche detto «Se dici “bruciare” sembra una cosa brutta». Caspita, in effetti se dici “impiccare” sembra una cosa carina e simpatica.
E “la filo”? Ho visto i miei compagni di corso sgranare gli occhi a sentire la frase «Ho fatto tardi perché ho perso la filo». Nessuno di noi si ricorda quando a Brescia c’erano i fili della corrente che davano energia agli autobus. Forse non li abbiamo nemmeno mai visti, non so quando li abbiano aboliti, ma per noi l’autobus è “la filo”, al femminile. Termine che indica solo il servizio urbano, ovviamente. Siamo precisi noi.
Mentre per i milanesi si chiamano in generale “mezzi”, gli orobici usano il nome dell’azienda del trasporto urbano bergamasco. E così tocca al bresciano sgranare gli occhi alla domanda «Sai a che ora passa l’Atb?».
Abbiamo una cadenza eccessiva? Probabilmente sì. Usiamo dei modi di dire grammaticalmente agghiaccianti? Può darsi. Ma fanno parte di noi. Se a qualcuno non piacciono, si tappi le orecchie e “faccia sito”.
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