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Ferrari (Pd) sulla candidatura Fenaroli (Sel): candidatura rivolta al passato e finalizzata a spaccare il Pd

“Resta la netta impressione di un disegno interno alla sinistra più tradizionale con cui qualcuno (non Marco) abbia inteso forzare per dividere il Pd. Ma sono troppo eloquenti le lezioni che hanno preceduto Brescia per immaginare che noi si possa subirlo passivamente”. Con queste parole – che chiudono l’intervento pubblicato sul suo blog – il deputato del Pd Pierangelo Ferrari commenta la candidatura di Marco Fenaroli, che “nasce con la testa rivolta al passato, rischiando di essere inadeguata alla sfida del futuro”

ECCO IL TESTO INTEGRALE DELL’INTERVENTO DI FERRARI

Siamo dunque alle prese, dopo Genova e tutto ciò che l’ha preceduta, all’ennesimo ’capolavoro’ politico della segreteria nazionale del PD. Non mi riferisco al segretario, impegnato, con discreto successo, su fronti decisivi per il futuro del Paese. Mi riferisco al gruppo dirigente che sta attorno a lui e che lui, del resto, si è scelto. L’evento palermitano è l’esito più grave di una sequenza di errori, dalla Puglia a Napoli, da Genova alle vicende calabresi, coltivati da una inadeguata attenzione alle realtà territoriali e da un mancato esercizio delle responsabilità. C’è una questione grande come un macigno che va rapidamente affrontata: la credibilità che il PD si è guadagnato sul piano politico nazionale non può essere dilapidata, con uno stillicidio imbarazzante di autogol, dallo scalpitare antimontiano dei giovanotti della segreteria e dalla gestione fallimentare di vicende locali. Che poi tanto locali non sono, visto che si parla di grandi realtà. C’è un problema di autorevolezza della segreteria nazionale, condizione preliminare per gestire processi politici complessi verso sbocchi unitari. Alle primarie, per dire, il PD si deve presentare con un solo candidato, deciso negli organismi dirigenti, e laddove le primarie impediscono alleanze più larghe o addirittura favoriscono operazioni di inquinamento politico non si devono convocare. Punto. Tanto più che esse sono diventate il terreno di regolamento di conti interni al PD e, di conseguenza, sono sempre meno partecipate. O troppo, come a Palermo.

Mi stavo accingendo a scrivere di cose bresciane per i soli bresciani, quando è arrivata la notizia di Palermo. Brescia è lontana, da molti punti di vista, dal capoluogo siciliano. Ma anche da noi i primi passi verso le elezioni comunali del prossimo anno rischiano di aprire brecce non indifferenti. Nel fine settimana appena trascorso, a quindici mesi dal voto, ben tre candidati si sono affacciati sul palcoscenico di palazzo Loggia. Due, Alessandro Cè e Francesco Onofri, in modo implicito e oltre i confini degli attuali schieramenti. Il terzo, Marco Fenaroli, con una candidatura interna al centrosinistra. A me, in attesa che centrismi e civismi vari escano allo scoperto, interessa quest’ultima iniziativa, che nasce nel segno di una replica della vicenda Pisapia. Marco Fenaroli è un amico e un galantuomo come pochi, ma le differenze con il caso milanese sono troppe e troppo rilevanti per essere trascurate. Se Pisapia, per quanto esponente della sinistra radicale, è figlio della borghesia milanese delle professioni, Fenaroli ha passato la sua vita (molto onorevole) nelle stanze degli apparati di partito e di sindacato. La prima cioè è stata, a tutti gli effetti, una candidatura nata nell’ambito della società civile, di quella borghesia liberal, di sinistra e non (vedi Bassetti), che ha un peso rilevante negli assetti di potere della città e che ha riconosciuto a Pisapia la sua cultura garantista, soprattutto in tema di giustizia. La seconda è nata in sedi politiche, tra Rifondazione e Sel, con un dirigente del PD che l’ha promossa e accudita. Non ne faccio un problema di qualità, ma di genesi, di rappresentatività e di profilo politico. I due non sono proprio la stessa cosa. Il secondo può unificare ciò che sta a sinistra del PD, ma il primo poteva andare oltre i confini del centrosinistra e ci è andato. E’ la differenza che c’è tra un buon capolista e un candidato sindaco competitivo. Ma la differenza più rilevante sta nelle diverse stagioni politiche. Lo scorso anno, le elezioni milanesi si sono tenute in piena epoca berlusconiana, durante la lunga ‘guerra di posizione’ (per dirla gramscianamente) tra due schieramenti bloccati nelle rispettive trincee. Ma da mesi si è aperta ormai una ‘guerra di movimento’ in campo aperto, i cui effetti si vedranno soprattutto dopo le prossime elezioni amministrative, quando il fronte del centrodestra si sfalderà con effetti non ancora prevedibili, sul centro e perfino sul centrosinistra.

Per questo la candidatura di Fenaroli nasce con la testa rivolta al passato, rischiando di essere inadeguata alla sfida del futuro. “E’ prematuro parlare di candidature senza sapere con quali prospettive”, ha dichiarato saggiamente Cesare Trebeschi. Già, è stato un errore accettare lo schema di Sel (“l’impostazione è quella”, ha ammesso), quella dell’accelerazione di una candidatura senza programma. Perchè ci si candida alle primarie quando sono state decise da una coalizione, nata su un minimo di programma. Mentre con i fatti compiuti si delegittima la coalizione e si pregiudicano le stesse primarie. Ma il confronto deve restare aperto, vedremo. La sola posta in gioco è la sottrazione della città dalle mani della destra. Tutto ciò che va in questa direzione ci interessa, iniziativa di Fenaroli compresa. Resta tuttavia la netta impressione di un disegno interno alla sinistra più tradizionale con cui qualcuno (non Marco) abbia inteso forzare per dividere il PD. Ma sono troppo eloquenti le lezioni che hanno preceduto Brescia per immaginare che noi si possa subirlo passivamente.

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Redazione BsNews.it

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