L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 9-10
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CAPITOLO IX
Martin Bascià era arrivato in paese intorno agli anni
Trenta, ragazzo. Nessuno si era mai preso la briga
di sapere da dove provenisse, al seguito di una vecchia zia
che, occupato un fondaco nelle case sotto il lavatoio, vi
si era installata senza mai uscire se non per fare la spesa.
Da dove provenissero i soldi, che spendeva abbondantemente
almeno per i generi alimentari, non si sapeva. Né
si sapeva dove li custodisse. Martino era di pelle scura,
neri erano gli occhi e i peli: “sembra un scurbat”, diceva
qualcuno, ma altri lo chiamavano “u scaraffone”.
Nessuno riuscì mai a scoprire quando e come sparì la zia.
Il panettiere e il macellaio un giorno videro presentarsi,
a far acquisti, il nipote che continuava a comprare la
stessa quantità di cibo, come se a mangiare fossero sempre
in due. Ma con il passare del tempo e dalle poche
parole che i negozianti riuscivano a strappargli, si seppe
che la zia non abitava più con il ragazzo. Anzi, era proprio
sparita forse per ritornare nella patria d’origine.
Nonostante il paese brulicasse di curiosi, nessuno si interessò
mai seriamente per chiarire la situazione. Passava il
tempo, Martino cresceva, aveva sempre i soldi per pagare
e non dava fastidio a nessuno. Diventato un giovane
uomo, un giorno sparì anche lui dalla circolazione per
ripresentarsi, dopo qualche mese, accompagnato da tre
belle ragazze che fece iscrivere all’Ufficio Anagrafe asse-
rendo fossero sue cugine.
Nel vecchio, piccolo fondaco, al padrone del quale anche
da lontano aveva continuato a pagare l’affitto, ora risiedevano
in quattro.
Martino tutte le mattine si alzava all’alba e, dopo un’abbondante
colazione, partiva, tirando un carretto, alla raccolta
di qualsiasi cosa trovasse buttata via lungo le strade,
nei cortili o nelle aie dei contadini: carta, vetro e metalli.
Tornava alla sera, prima di cena, con il carretto sempre
pieno. Lo scaricava davanti al fondaco e, dopo essersi
accesa la pipa e aver preso posto su una comoda poltrona
che aveva portato fuori da casa, dirigeva le tre ragazze
nella suddivisione di quanto aveva raccolto.
Questo succedeva tutti i giorni della settimana, sabati e
domeniche comprese. Solo al lunedì Martino trasportava
il suo piccolo tesoro: il metallo alle ferriere Tassara; il
vetro alla ditta Pontebba che poi lo rivendeva alle vetrerie;
carte e cartoni giù al Lanico dove venivano ammucchiati
vicino ai binari del treno, in attesa fosse raggiunto
il quantitativo necessario a riempire un vagone da mandare
alle cartiere.
Di soldi doveva guadagnarne abbastanza perché ci vivevano
in quattro, e ai vicini sembrava abbastanza bene. La
cosa che suscitava grande invidia era che le ragazze erano
sempre in preda ad una grande allegria, durante tutta la
giornata o cantavano o scherzavano ridendo anche sguaiatamente.
Comunque nel loro gruppo non accettavano
nessuno e con i vicini scambiavano solo le parole per una
civile convivenza. Non si sapeva cose succedesse alla sera
nel fondaco ma, data la costante allegria delle ragazze,
qualcosa doveva succedere e, sicuramente, di molto pia-
cevole. In paese, privi di notizie certe, si cominciò a mormorare
che le tre ragazze fossero, in effetti, il piccolo
harem di Martino che, nonostante le fatiche di un lavoro
pesante, riusciva ad accontentarle tutte e tre.
Naturalmente gli uomini sbavavano, invidiosi, pensando
che uno straccione come Martino era riuscito ad attuare,
così sfacciatamente, il sogno nascosto di ogni uomo: far
convivere sotto lo stesso tetto moglie, amante e amante
di riserva. Le donne, che avrebbero dovuto sentirsi parte
lesa, invece, anche sulla base di quella allegrezza che le
tre concubine dimostravano tutti i giorni, parteggiavano
per Martino, che un giorno divenne per tutti Martin Pascià,
storpiato poi, per ignoranza, in Martin Bascià.
Un giorno Martino vicino al lavatoio, in un posto al riparo,
legò un asinello. La mattina dopo arrivò con un
piccolo carretto e con gli accessori per attaccarci l’asino.
La ditta si ingrandiva, Martino riusciva a visitare più
posti, a recarsi nei paesi vicini e, davanti al fondaco, la
quantità dei materiali raccolti continuava a crescere.
Un giorno mentre si trovava a Pescarzo, una frazione di
Breno, venne avvicinato da una giovane vedova che aveva
deciso, dopo la morte del marito e non avendo figli,
di trasferirsi presso una sorella che risiedeva a Brescia.
Aveva bisogno di guadagnare e, forse, in città avrebbe
potuto trovare da lavorare, magari a fare le pulizie in
qualche famiglia benestante. La donna gli offrì di ritirare,
per quattro soldi, mobili e suppellettili della casa che
stava per abbandonare. Martino accettò ben volentieri e
da quel giorno si trovò, oltre all’abituale raccolta, a commerciare
in mobili usati e, di rado, in pezzi di antiquariato.
Comprò il fondaco dove abitava con le tre concu-
bine, lo allargò; prese in affitto un magazzino dove
cominciò ad accatastare i mobili che non riusciva a
rivendere subito. Insomma, incominciò una attività di
compra-vendita che venne conosciuta praticamente in
tutta la valle.
Ora, quasi sempre, erano i venditori a cercare lui; alcune
volte offrendogli persino gli arredamenti in conto vendita,
permettendogli così di tenere sotto controllo una
grande quantità di merce senza grossi impegni finanziari.
Quando ancora era ragazzo, durante uno dei suoi giri in
cerca di rottami, Martino si era avvicinato a una cascina
che sembrava abbandonata, attraversando un boschetto
al centro del quale vi era quello che restava di un vecchio
pollaio. L’attenzione fu attratta da un grosso pezzo di
ferro, ormai arrugginito, che aveva una forma strana. Il
ragazzo, cercando di rivoltarlo, lo spinse col piede. Un
urlo terribile percorse la valle. Martino, tra dolori indicibili,
cercava di staccarsi quella morsa di ferro che gli lacerava
la gamba. Ma la tagliola per volpi era fatta in modo
tale che solo un uomo robusto riuscisse ad aprirla.
Guidato dalle urla del ragazzo, il Russì, che stava pascolando
alcuni capi proprio sopra la cascina abbandonata,
venne in suo soccorso. Aprì con grandi sforzi la tagliola,
tolse la gamba di Martino, se lo caricò sulle spalle per poi
adagiarlo sul carretto del ragazzo e partire verso l’ospedale
di Breno. Per fortuna nessun nervo era stato leso e la
gamba fu sistemata con una ottantina di punti di sutura
ed ingessata. Martino, da quel giorno, ebbe per il suo
soccorritore una grande riconoscenza, quasi una venerazione.
Il Russì non si limitò, infatti, al trasporto in ospedale,
ma andò a visitarlo durante i tre giorni di ricovero.
Fu lui a trasportarlo a casa e a portargli da mangiare sino
a quando il ragazzo non fu in grado di camminare.
Quando Martin Bascià vide venirgli incontro l’amico
Russì, gli rivolse un gran sorriso per poi abbracciarlo fraternamente
apostrofandolo scherzosamente:
“Vecchio orso delle montagne, è la fame di femmine che
ti ha fatto scendere a valle?” e dopo avergli battuto affettuosamente
la mano sulla spalla lo invitò ad entrare nel
Bar Littorio per bere un aperitivo.
“Sto volentieri con te, ma aperitivi niente. Se no con la
mia morosa rendo poco e lei ci tiene alle mie prestazioni.
Te e le tue donne come andate? Ce la fai a mettere al
mondo un figlio, che sarebbe ora? Mi sa che non ci sai
fare. Vedrò di trovare il tempo per darti qualche lezione
e magari… una mano”.
Tutti e due scoppiarono a ridere e il Russì prese l’amico
per un braccio, tirandolo verso il centro del paese dov’era
il tabaccaio. Con voce più bassa chiese all’amico:
“Come va con i tedeschi? Ti rompono le balle anche a te?
Brutti bastardi”.
“Non li posso più vedere” rispose Martin. “Tutte le volte
che mi incrociano e vedono che ho il carretto pieno me
lo fanno scaricare neanche nascondessi partigiani o
bombe. Un po’ lo fanno per dispetto, ma soprattutto lo
fanno perché ormai hanno paura di tutto e di tutti. E poi
girano sempre intorno a casa mia con la speranza di
incontrare una delle mie donne e vedere di combinarci
qualcosa. Io un giorno gli sparo a quegli affamati. La figa
se la cerchino tedesca. Potevano pensarci prima di venire
a rompere i coglioni a noi!”
“Ho un progettino per castigarli” disse il Russì, “e forse
potresti darmi una mano, naturalmente se te la senti”.
“Con te sempre e ovunque” gli rispose. Dal tono della
voce si capiva che era veramente disposto a seguire l’amico
in ogni avventura.
CAPITOLO X
L’Hauptmann Reserve Comandante del presidio tedesco
non poteva che chiamarsi Franz: alto, grosso,
con un paio di baffi alla Francesco Giuseppe che teneva
curatissimi, una voce roboante che incuteva soggezione.
Era, in effetti, un buon bottegaio trasformato in Sturmführer
dagli eventi della guerra.
Aveva un grande desiderio della sua famiglia che non
vedeva da oltre un anno, della grassa moglie con tette
che sembravano le colline della Bavaria e un culone burroso
ma ancora sodo. La chiamava “la morbidosa” quando
facevano all’amore e le affondava il viso in mezzo
all’abbondante seno solleticandola con i baffoni. Ricordava,
con sempre maggior nostalgia, quando rimanevano
abbracciati lungamente al caldo sotto i piumoni nel
loro grande letto: lui abbondantemente appagato e lei
soddisfatta di essere con il suo uomo.
Ora avrebbe voluto fare sesso anche per scaricare la tensione
nervosa accumulata nel lavoro, che svolgeva con
scrupolo tedesco, ma senza condividerne la finalità né i
sistemi. Tutto questo lo stressava notevolmente, ma non
sapeva come fare. Non poteva mischiarsi ai suoi soldati e
agli altri italiani che lo conoscevano ed andare al casino
di Lovere. Luogo, tra l’altro, gli avevano detto, squallido
più di quanto potesse essere già di per sé un posto dove
si fa all’amore a pagamento.
Aveva cercato, in ogni occasione che aveva avuto di avvicinare
una donna, di capire se una sua eventuale avance
potesse essere gradita. Ma era evidente che da tutte era
considerato un invasore, un nemico odiato dai più e mal
sopportato dai fascisti che pur apparivano subdolamente
deferenti. Nelle sue elucubrazioni notturne era arrivato
persino ad immaginare di fare sesso con Benedetta, la
cameriera dell’albergo addetta alle pulizie delle camere,
al bucato per la biancheria intima e per le camicie dei
tedeschi. Benedetta, che doveva avere almeno cinque
anni più di Franz, gli ricordava in qualche modo sua
moglie, con quel grosso seno, i fianchi abbondanti e quel
sorriso, assai raro ma così simpatico, che metteva in
mostra una dentatura ancora sana e brillante. Cercava di
capire se avrebbe provato piacere a baciarla e, possibilmente,
a fare qualcosa di più con lei. Una notte decise
che era arrivato il momento di tentare.
Non aveva mai tradito la moglie in tanti anni di matrimonio,
aveva scarsa dimestichezza con le donne, ma la
fame di sesso lo aveva convinto che doveva mettere in
piedi, al più presto, un progetto per avvicinare la donna.
Aveva cominciato abbandonando i gelidi saluti quando
la incontrava, condendoli con ampi sorrisi. Aveva poi
trovato il modo, nel suo stentatissimo italiano, di farle
capire che era molto soddisfatto di come veniva trattata
la biancheria e di come veniva effettuata la pulizia della
stanza. Era passato quindi a qualche regalo di tavolette di
cioccolata, una delle poche cose che riceveva come extra
dal proprio comando. Fu poi la volta di un sacchetto di
caffè seguito da qualche lira.
Benedetta, che aveva capito subito tutto, stava al gioco
sia perché cioccolata, caffè e qualche lira le facevano
comodo, sia perché quel grasso tedesco le ricordava il suo
Angelino, che l’aveva lasciata tanti anni prima per andare
a cercare fortuna, o, almeno, lavoro, in Belgio. Sparito
poi, non si sa se inghiottito in una delle terribili miniere
che esistevano in quel paese o in un letto di qualche
donna belga sedotta dal fascino latino. Erano tanti anni
che non toccava un uomo e, se non ne avesse approfittato
subito, avrebbe potuto perdere l’ultima occasione.
Così, quando il tedesco fu più esplicito, Benedetta non
è che gli si buttò immediatamente tra le braccia, ma gli
fece capire che era lusingata dalle sue attenzioni.
Bisognava comunque risolvere un problema logistico. Di
incontrarsi a casa sua Benedetta non avrebbe neppur
accettato di parlarne. La cosa doveva essere fatta in gran
segreto, per non beccarsi, oltre alle critiche e ai pettegolezzi,
magari anche della collaboratrice. In albergo, dove
tra l’altro lei due volte alla settimana faceva anche da
guardiano notturno, i tedeschi dormivano due in ogni
camera e lo spostamento dell’attuale compagno di stanza
del suo futuro amante era alquanto difficile. Con lui,
il compagno di notti infarcite di russate terribili, Franz
aveva raggiunto una certa confidenza e, considerata la
differenza d’età, lo trattava come un figlio.
Era ovvio che il suo sottoposto, Bernd, assiduo frequentatore
del casino di Lovere, riuscisse a capire i problemi
che una prolungata astinenza poteva provocare all’Hauptmann
Reserve e che il suo desiderio di una donna
fosse più che comprensibile. Bernd, tutti lo sapevano
e ci scherzavano su, bastava appoggiasse la testa a un
sostegno qualsiasi e, a qualsiasi ora del giorno e della
notte, nel giro di due minuti, prendeva sonno. Le notti
non erano ancora fredde: al riparo di una coperta, il suo
aiutante avrebbe potuto passare qualche ora dormendo
in qualche locale non frequentato dell’albergo, o, addirittura,
in auto. Gli seccava un po’ che qualcuno sapesse
esattamente quello che lui stesse facendo e per quanto
tempo fosse intento a godere, ma non trovava altra alternativa.
Gliene avrebbe parlato al più presto.