📕 Pintajota | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/37
PINTAJOTA – racconto di Umberto Tanghetti
Presero la Pintajota alla cantonera.
La fermata era approssimativa: si aspettava “alla pala di ficurinia” (fico d’India) oppure alla seconda trazzera arrivando dal paese o appunto, alla cantonera.
Chè la Pintajota l’ avrebbe sentita chiunque, non c’ erano tanti mezzi a tirar su polvere per
le strade cittadine e quella era di cilindrata un cinquemila, raggiungeva i sessanta all’ora ed era lunga ben otto metri: risvegliava gli entusiasmi anche dei più insensibili nostalgici dei bei tempi andati, quando per le vie si sentivano solo gli zoccoli di certi ronzini..
Eppure c’ era, in paese, un vecchio garibaldino che la domenica si metteva sempre la camicia rossa stirata di tutto punto e si sedeva davanti alla porta di casa a testimoniare quale fosse la grandezza delle imprese eroiche: col cavallo a ricucire l’Italia nella sua ingenua visione rivoluzionaria.
Ecco perché storceva il naso a sentire quel baccano di cilindri e bielle e a vedere quel fumo bluastro che dalla marmitta sputava fetore di modernità nociva: storceva il naso perché gli sembrava tutto troppo plateale.
Mica come il suo cavallo che, tuttalpiù, si fermava a brucare lungo le trazzere e defecava camminando, senza fare né rumore né fumo incombusto, aspettando che i garibaldini si mettessero d’accordo sul luogo in cui attaccare.
Su quella corriera, invece, si saliva da davanti e volgendosi a sinistra c’ era una fila di sedili singoli, il corridoio e quindi, un’ altra fila di sedili appaiati a due a due a destra: in tutto ben più di 20 posti!
La Pintajota era il Lancia Pentajota, una prima idea di autobus che, dalla metà degli anni venti entrò in produzione su al nord ed iniziò a collegare molte città d’Italia e in Sicilia, Palermo con vari paesi dell’ entroterra.
In quegli anni mise le radici il nome che, poi, per antonomasia, passò ad indicare le corriere tutte, diventando, in Trinacria, Pintajota appunto.
Salendo, Giuseppe e Baldassarre andaron fino in fondo ad accomodarsi nei posti più appartati: anche allora quella collocazione raddoppiava il senso di gita fuoriporta.
I due dovevano andare a Palermo a registrare un atto per un certo appezzamento di terreno che stava proprio in quella provincia e da quando la Pintajota aveva permesso un collegamento regolare, il viaggio regalava due ore e passa di libertà assoluta.
Due ore di progresso verso un futuro radioso sospinto dagli anni della gioventù e dalla voglia di sentirsi parte della modernità.
Aveva, quella possibilità di andare a Palermo salendo su un mezzo a motore, lo stesso sapore della prima sigaretta accesa in età adolescenziale: l’illusione di essere passati dalla parte di chi non dovesse più chiedere il permesso.
Tuttavia non capitava loro spesso di provare
quell’ ebrezza, perché la necessità doveva essere impellente per affrontare cotal spesa, dato che era quella un tipo libertà non proprio adatto a tutte le tasche.
Aprirono su entrambi i lati i finestrini e Baldassarre appoggiò il braccio alla lamiera, facendo sbucare fuori dall’abitacolo il gomito, come a guidare un’ Alfa 8C competizione.
L’immaginazione, quella sì era gratuita e dava gusto a gesti che per molti sarebbero semplicemente stati normali.
Due erano i motivi per cui i vetri dovevano stare aperti: il primo era un dovere di protezione dalla canicola e il secondo era per sentire il rumore del motore che vibrando e scoppiettando dava, soprattutto a Baldassarre, un gran senso di conquista guardando i passanti sul marciapiede dall’ alto in basso.
Salirono anche altre persone: riconobbero il notaio del loro paese, quello stralunato, che si sedette in testa per farsi dire la fermata dall’autista.
Aveva quell’ uomo austero e colto un serio problema con la propria collocazione spazio-temporale e in balia di questa sua approssimazione, si faceva spesso assalire dal dubbio sul dove e sul quando.
Era un personaggio assai originale: parlava il latino fluentemente facendolo sembrare una lingua non più morta, ma viva e vegeta e talvolta, si divertiva a tradurlo pure in greco, così, solo per il diletto di parlarsi addosso perché, in realtà, nessuno lo capiva.
Per contrappasso era una frana nelle cose pratiche di questo mondo, ai limiti dall’ essere disastrato socialmente.
Una volta la sua auto, una vecchia Balilla, sembrava al suo orecchio distratto malfunzionare e passando dal meccanico, lo fece salire per far valutare a lui il rumorino traditore.
Ripartì e si dimenticò che lì a un centimetro da lui era comodamente seduto il meccanico;
gli prese un colpo quando se ne accorse:
“Che ci fa lei qua!?” disse intimorito al povero operaio che non capì se fosse uno scherzo o un reale sbalordimento.
O ancora quella volta che chiese a due signori che stavano facendo un atto notarile sotto la sua supervisione:
“Gradi di parentela?” e quelli risposero: “No!” senza intender per davvero la domanda.
Alla fine della lettura uno disse all’altro: “Amunì, pà?”(andiamo papà)
E il notaio: “Cosa ha detto?!?! Allora siete parenti!! Ahhh!! È un’ ora che parlo inutilmente!” e si mangiò letteralmente l’atto, ciancicandolo con la bocca.
A metà della fila di sinistra c’era Ignazio, detto ‘Gnà u mulu” perché capiva poco ed era uomo di fatica: riusciva a portare pesi che di solito scomodavano due persone e amava fare i cruciverba, ma non ne portava a termine nemmeno uno, perché sbagliava tutte le definizioni, intasando poi la prosecuzione dello scritto.
Passarono alla storia alcune definizioni..
Sette verticale: fuma a Catania. Rispose “pipa”
Quattro orizzontale: bianca a Washington. Rispose “neve”.
La sua genialità era trovare parole della lunghezza giusta e che fossero inattaccabili dal punto di vista logico e così si inalberava e andava in giro chiedendo: “Ora mi dovete dire se a Catania la pipa fuma oppure no! Allora se fuma è sbagliato il cruciverba!”
Così si animavano le chiacchiere e le risate di chi gli dava corda per divertimento.
C’era poi Antonio, detto Totò, definito anche “personaggio famoso del novecento” al pari di un Cadorna o di un Matteotti.
Il Novecento era il nome del bar del paese e lui era l’espressista: la chiave di volta dell’attività, da cui derivava la sua fama, senza di lui tutto si fermava.
C’ era poi qualche villano che prendeva la corriera per raggiungere nelle contrade disperse nella campagna, i parenti o i contadini che già lavoravano la terra.
Eran partiti da un’ oretta: Baldassarre fantasticava di improbabili imprese motoristiche, guardando la bionde stoppie rinsecchite alle quali, secondo
un’ usanza mai passata di moda, si dava fuoco approfittando del ventoso aiuto.
Giuseppe, invece, sonnecchiava appoggiando tramortito la nuca alla vetrata posteriore.
D’ improvviso, durante una salita, un sussulto secco e uno stridere di gomma.
Giuseppe si svegliò di soprassalto e mise la testa fuori dal finestrino, guardando verso il basso: “Abbiamo stallonato la posteriore destra!”
“Come?!” gridò l’autista senza aver capito.
“Spirtusammo la umma! ” disse in modo più pragmatico Baldassarre e rivolgendo un sussurro al suo amico, gli disse: “Giusè, ma come minchia parri, un ti capisce nuddu!”
La Pintajota arrancava perdendo di trazione e gli uomini scesero in cinque ad ammuttare: Baldassarre, Giuseppe, Gnà u mulu, Totò e un altro signore che era salito dalle parti di Grisì.
La spinsero in una piazzola, sulla sinistra, dove uno slargo permetteva di non bloccare la carreggiata alla remota possibilità di incontrare un altro mezzo in senso contrario e la affiancarono di giustezza al paracarro.
L’autista e un paio di volontari iniziarono ad armeggiare sulla grande ruota di scorta posizionata davanti sulla fiancata mentre Giuseppe e Baldassarre si sedettero sul paracarro con le spalle appoggiate alla corriera.
Quel posto ventilato e quel panorama aprirono loro un pititto fragoroso e quasi all’ unisono, guardandosi si dissero:
“Pigghia lu scartoccio!”
Baldassarre tirò fuori dal suo zaino un cartoccio di carta di pane che conteneva due arancine ancora tiepide.
Le agguantarono e alla prima morsicata, le sentirono croccare e sprigionare un profumo di ragù e piselli che potevano sentire in tutta la vallata. Schiacciavano sui lati l’ arancina per fare emergere il ragù e poi di taglio con un morso a raccattare carne e riso.
Che goduria!
Rilassandosi in quel modo, Giuseppe scrutava la campagna coi suoi ritmi lenti e i suoi spazi sconfinati. Si vedevano lontani, grandi come mosche, i contadini intenti alla mietitura del grano, muli, cavalli e grandi carri che raccoglievano il segato.
Lavoro duro quello, un’ eterna lotta per la sopravvivenza. Li guardava con rispetto, ne percepiva la fatica, ne immaginava dal comodo della sua postazione, le mani consumate, le schiene curve e si sentiva privilegiato, lui che mangiava l’arancina e si godeva lo spettacolo.
Ad un certo punto gli venne da dire a Baldassarre:
“Ti pare che la Sicilia è il mare? Il mare sono i capelli mori e setosi delle fimmine che attìa piacciono, sono l’illusione che da lontano ammalia; ma la Sicilia, per capirla, devi venire giù fino al cuore, qui nell’ entroterra e piegare la schiena, cumpà. Devi guardarla dall’ alto riempiendoti i polmoni di quest’ aria che fa ondeggiare i campi al ritmo della libertà.
Guarda questo vallone lavorato: grano, ulivi e poi i vigneti. Li vedi quelli?” ed indicava in lontananza i contadini su cui aveva già ragionato.
“Cambierà mai per loro? Porterà il pane a loro Nuvolari? O se lo dovranno sudare nell’ incertezza, come sempre”
“Senti Pè, ammìa non me ne fotte niente dei villani, io Nuvolari l’anno scorso l’ho visto per davvero, sul rettilineo prima di entrare a Cerda: minchia compà, pareva un’ aeroplano sulle ruote la sua Alfa rossa.
È passato almeno ai 180!!
Gli ho gridato: Nuvolari, portami con te verso il futuro! Ma lui manco mi intise, era già avanti in sterzata controllata a fare la curva a più di 80.
Che rumore, che sogno! Che velocità! Ma te lo immagini, per girare a destra, sterza a sinistra, du foddi!”
“Ah che testa leggia che sei!” rispose Giuseppe.
“Sempre così ci hanno fregato noi siciliani: tutti a portarci verso il futuro e noi come gli allocchi a farci imbambolare abbiamo consumato la nostra inerzia da superpotenza. Ormai che siamo?
Nobili decadenti che tutto cambiano perché niente cancia.
Che ne sai tu dei francesi, degli spagnoli e financo di Garibaldi? Compà nente amu caputo! Guarda qua la Pintajota, la tua modernità che si arresta all’improvviso e tu devi scendere per ammuttare, come sempre!
Cambia prospettiva: la velocità non può essere il tuo fine di per sé stesso, ma, tuttalpiù, il mezzo per arrivare meglio a capire il senso delle cose.
Se corri, corri e corri e non sai dove, finisce che non vedi quel curvone (ed indicava con la mano un gran curvone là infondo verso Altofonte) e ti sfracelli.
Invece, se sai dove stai andando, finisce come adesso: appoggiato alla moderna Pintajota a guardare quanta strada abbiamo fatto per arrivare fin qua su. Allora tutto ha senso!”
“Giuseppe – rispose Baldassarre – mi hai fritto i cabbasisi cu tutta la mentuccia cu ‘sti riscursii!
Se a mia mi runi una fimmina giusta e un’Alfa 8c competizione, io sono apposto compà, invece attìa piacciono quelle con le gambe torte!
Chi è strambo, io o tu? ”
” Lo vedi – rispose Giuseppe – non capisci una beata fava.
Per me il mare rimane di contorno, lo guardo da lontano e assai mi piace, ne comprendo la beltà, ma poi vengo qui nell’entroterra dove batte il cuore a capire se una fimmina è come si deve!
E così vale per la Sicilia.”
“Io non ti capisco, si parla di fimmine e tu mi dici dell’ entroterra, ‘sto caldo ti sta dando alla testa!”
Sentirono gridare da qualcuno: “Acchianate! Tutti ai propri posti che si parte!”
Dopo aver cambiato la ruota, l’autista era tutto sudato e nivuro come le sicce (seppie) cu la pasta: mise la prima con adeguata grattata di ingranaggi e la corriera scollinò verso Palermo. Qui il traffico era intenso, non come da loro al paese.
Uscendo dal notaio, dopo aver firmato l’atto, Giuseppe fece un regalo a Baldassarre:
“Compà, passiamo da mia zia a porta Nuova e facciamoci ospitare questa notte.
Domani parte la Targa Florio: ho voglia di vedere se è vero che Nuvolari sa volare!
UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?
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