Tumori al seno, la prevenzione tra campagne mediatiche ed efficacia concreta | BRESCIA VISTA DALLA PSICOLOGA
La salute dipende più dalle precauzioni che dalle medicine. (Jacques-Bénigne Bossuet)
intervista di Irene Panighetti a Doriana Galderisi* – Ottobre è tradizionalmente il mese dedicato alla prevenzione di tumori al seno, ma non solo. Ma ottobre è anche il mese durante il quale prende il via, a livello nazionale, la campagna vaccinale per l’immunizzazione contro influenza e Covid.
La prevenzione salva la vita, eppure da tempo ormai le campagne non godono del successo totale che si attendeno le istituzioni sanitarie. Il direttore di Ats Brescia Claudio Vito Sileo lo ha ricordato anche di recente, dati alla mano: nel 2023 solo il 62% delle donne ha aderito allo screening mammografico, mentre per la campagna anti-influenzale si è raggiunto solo il 63%, quella contro il Covid ha avuto adesioni ancora più scarse.
Dottoressa Galderisi, prima di analizzare il fenomeno del relativo insuccesso delle campagne facciamo un passo indietro e iniziamo con il capire che cosa si intende per prevenzione e in quali modelli si declina.
Grazie per questa domanda perché a volte si dà troppo per scontato il significato di prevenzione e questo può talvolta già di per sé comportare una riduzione dell’attenzione e della presa d’atto dell’importanza di azioni preventive. Ma entriamo nel merito. Sono moltissime le ricerche sul tema della prevenzione, su che cosa sia realmente, su quali fattori si struttura e quali sono gli obiettivi e le modalità migliori per realizzare interventi di successo. Studiosi come Francesca Cristini e Massimo Santiello considerano la prevenzione un intervento incentrato su problemi da intercettare prima che si presentino. Prevenire quindi vuol dire lavorare per abbattere le probabilità del sopraggiungere di una problematica, di un malessere, di una malattia e, per fare questo è indispensabile identificare i fattori di rischio. Il concetto di prevenzione si concentra perciò su tutto quello che può generare un “danno” ad una persona, ovvero su quello che può essere considerato un risultato di sviluppo negativo. L’ottica descritta, pur importantissima, non abbraccia l’intero problema, perché non garantisce che vi sia una effettiva eliminazione dei rischi dell’insorgere di un problema. Va infatti considerato anche tutto l’insieme di quelle che sono i meccanismi alla base delle scelte, delle decisioni, di assunzioni di responsabilità nelle persone, aspetti che hanno a che fare con convinzioni, visioni culturali, esperienze personali.
Allargare la prospettiva e considerare un’ottica che parta dal concetto di promozione della salute vuol dire avere la possibilità di generare interventi proattivi, cioè capaci di muovere, di sviluppare, di avviare, tutta una serie di azioni a cura e tutela della salute partendo dalle abilità di ogni persona. Si tratta di lavorare sulle life skill, ma anche sui sistemi di convinzione, si tratta di informare, di adottare una visione che si basi sul concetto di educazione alla salute, ovvero, un’ottica che si focalizzi su una condizione di benessere più complessivo delle persone, su ciò che andrà bene, sui cosiddetti risultati di sviluppo positivi. Per quel che riguarda le forme della prevenzione, sono sostanzialmente tre: primaria, secondaria, terziaria. La primaria comprende tutti quelli interventi che mirano a non far insorgere i problemi e a cambiare dei comportamenti sbagliati (prevede campagne di sensibilizzazione, profilassi, correzione di situazioni che predispongono alla malattia, interventi sull’ambiente). La prevenzione secondaria invece ha come scopo di individuare precocemente soggetti ammalati o ad altro rischio per poter fermare sul nascere la malattia (si serve di screening per diagnosi precoci), quella terziaria infine è volta a ridurre le complicazioni di qualche cosa che ormai si è presentato e qui si entra nell’ambito del trattamento terapeutico.
L’adesione insoddisfacente alle campagne di prevenzione ha una spiegazione psicologica?
Come anticipato nella domanda precedente oggi di prevenzione si parla molto, si fa un po’ meno e si ottiene purtroppo troppo poco. Proprio perché gli esiti degli interventi preventivi attivati non sono sempre soddisfacenti, rispondenti alle attese, chiedersi il perché è fondamentale. Le motivazioni degli scarsi successi di molte campagne di prevenzione sono studiati e approfonditi dalle scienze psicologiche, in quanto sono proprio queste scienze che si soffermano sul funzionamento del comportamento e della mente e quindi possono fornire chiavi di lettura e spiegazioni al fenomeno. Tali studi sono numerosissimi e ci illuminano nelle complessità dei fattori in gioco nel raggiungimento del risultato, più o meno completo, dell’intervento preventivo. La psicologia della salute è un settore che prende in considerazione tutti quei fattori, cognitivi, affettivi, psico-sociali, comportamentali, culturali, che possono essere all’origine di quella che viene definita salutogenesi, cioè dello stato di salute delle persone, e contribuire ad un buon mantenimento della salute stessa. Nelle campagne di prevenzione sono importantissimi due aspetti per avere un buon risultato: la buona comunicazione e la formazione, prima ancora dell’informazione.
Con buona comunicazione si intende non tanto il buon parlare, ma il saper costruire tessiture narrative che abbiamo un appeal emotivo e cognitivo sui destinatari. Uno dei più potenti canali di trasmissione è quello dei mass media, che sono un forte strumento da utilizzare nelle campagne di prevenzione, perché raggiunge una grandissima quantità di persone. Ma proprio per la quantità enorme dei destinatari, non è possibile elaborare un messaggio unico, che vada cioè bene per tutti. Per esempio uno degli aspetti da considerare è l’età, in funzione della quale va modellato il messaggio da diffondere: l’età è portatrice infatti di strutture cognitive, di maturazioni emotivo-affettive molto diverse da quelle di altre fasi della vita. Ciononostante molte campagne preventive hanno informazioni poco focus specifiche, ovvero non sono focalizzate sul target di interlocutori da raggiungere. Un altro aspetto da tener presente nella comunicazione è la chiarezza e la veridicità dell’informazione, oltre che una particolare attenzione alla quantità di informazioni diffuse. Viviamo infatti immersi nelle informazioni, abbiamo spesso sentito parlare del concetto di infodemia, cioè la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi, o, addirittura, che abbassano il livello di fiducia nel messaggio stesso. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando la grandissima mole di informazioni che veniva diffusa ha talvolta generato una sorta di rigetto della scienza medica. Proprio per questi motivi le informazioni trasmesse devono essere ben selezionate, validate e comprensibili. Ancora, è importante perciò curare l’impostazione della campagna di comunicazione: vi sono campagne che sembrano imporre lo schema da seguire, l’azione da compiere e altre invece che sono troppo vaghe e questo può avere, su un fronte o sull’altro, una reazione di rifiuto o scarsa adesione perché non è ben chiaro il messaggio e l’obiettivo. Strutture più flessibili, che quindi incontrino anche esigenze più specifiche degli interlocutori, possono invece favorire un miglior ascolto e una migliore adesione.
Dagli studi condotti nell’ambito del marketing pubblicitario traiamo ulteriori indicazioni su aspetti che rendono più difficile l’adesione ad un programma di prevenzione Molto importante infatti è sapere che vi sono meccanismi tipici del funzionamento della mente che di per sé ostacolano la presa d’atto e l’adesione ad alcune linee di intervento e qui entrano in gioco i bias, che, come detto in altri miei contributi di questa rubrica, sono un po’ quegli ospiti della nostra mente che giocano a crearci degli inganni. Sono delle scorciatoie di pensiero che hanno la funzione di economizzare sforzi e ragionamenti e che, per questo, possono essere sbagliati. Un bias, chiamato “negligenza di probabilità”, è quello che non ci fa considerare le statistiche negative. Un altro bias è il “naïve realism”, il quale ci porta a pensare che il nostro modo di guardare al mondo sia pienamente oggettivo e che sono gli altri a sbagliare, mentre noi siamo in qualche modo più in gamba e qui subentra il bias dell’ottimismo, che ci fa credere che noi abbiamo molte meno probabilità di avere un problema e quindi c’è una grande “confidence”, ovvero fiducia in se stessi.
Pensare alla prevenzione significa in automatico pensare alla malattia. Come mai è così difficile confrontarsi con questo tema, quali le resistenze psicologiche?
Malattia fa rima con algia e terapia, con dolore e con la necessità di curare quel dolore, tutti aspetti che di per sé intralciano la direzione di vita, la progettualità, l’autonomia della persona poiché la malattia rende dipendenti, se non altro dalle cure. Potremmo definirla con l’espressione “Cigno nero”, termine coniato da Nassim Taleb, che rimanda ad un evento che sopraggiunge, irrompe spesso in modo improvviso e violento nella nostra vita: malattia, malessere, disagio… tutte cose che non vorremmo e, vorremmo invece, con Robert Ingersoll, far sì che…. Se dipendesse da me renderei contagiosa la salute invece che la malattia! In tutto questo la psicologia fornisce un grande aiuto: lo psicologo è per definizione un professionista dello stare bene, quindi molto utile sia nel contesto della prevenzione sia in quello del rapporto con la malattia. È una figura cardine, anche perché, conoscendo il funzionamento della mente e decodificando i comportamenti, è in grado di fornire tutta una serie di chiavi di lettura delle situazioni e di far vedere le direzioni migliori per raggiungere equilibrio, benessere, realizzazione dei propri obiettivi. In un’ottica di prevenzione lo psicologo sa valorizzare le risorse individuali, suggerire i modi di ampliamento delle skill, di miglioramento delle capacità di problem solving, di sviluppo di antifragilità e resilienza.
In un’ottica invece di strategie di convivenza con la malattia lo psicologo aiuta ad individuare strumenti per confrontarsi con la malattia, sia quella vissuta direttamente sia quella vissuta nel ruolo di assistenza di un nostro caro. In altre parole grazie alle scienze psicologiche è possibile affrontare la paura che genera la malattia, paura che si sviluppa su più piani: fisico, mentale, relazionale anche estetico. Ecco perché tendiamo ad allontanarne il pensiero. In un’epoca in cui gli stili di vita sono migliorati, in cui il benessere materiale, fisico, tecnologico in teoria facilita la prospettiva di un’esistenza migliore, pensare alla malattia significa pensare a qualcosa su cui non abbiamo il controllo, poiché il controllo della patologia è per lo più affidato all’esterno: ai medici, ai farmaci, ai macchinari. Tutto ciò mette in moto dei meccanismi molto potenti, che portano ad un evitamento, o ad uno spostamento del pensiero da questo tema ad altro. Invece dovremmo mettere in pratica il suggerimento del poeta Francis Quarles: Lasciamo che la paura del pericolo sia uno stimolo a prevenirlo; colui che non ha paura, fornisce un vantaggio al pericolo.
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