Caro direttore,
i ragazzi di oggi ci chiamano Boomers: noi, nati a ridosso degli anni ‘70, che abbiamo effettuato l’iscrizione ai social media a trenta, trentacinque anni suonati. Forse siamo davvero vecchi, sebbene non apparteniamo propriamente allo zoccolo duro che ha bandito i social dalla propria esistenza (ma li stimiamo assai) … Siamo piuttosto tra coloro che si limitano a scorrere la home e che, ogni tanto, provano timidamente a postare qualche fotografia: magari un panorama, uno scorcio di “tratturo antico”, un angolo di mare e cielo.
Non abbiamo però compiuto il grande salto, ovvero pubblicare, con cadenza fissa, contenuti interessanti (o anche no) intelligenti (o anche no) ‘edibili’ e via dicendo. Ma d’accordo: passi pure il selfie del sabato con amici, pizza, birretta e allegria, oppure quello in posa (maquillage impeccabile appreso dai tutorials) con gli sposi, dentro una romantica cornice di palloncini.
Però, permetteteci, tra il ‘grande salto’ e il “triplo avvitamento” che impone al cervello di babbo, mamma, zio, nonno (e ludotecario, catechista, allenatore, animatore estivo) di dar i bambini in pasto ai social, c’è un abisso.
Deve essere una recondita, impellente necessità dell’inconscio quella che spinge un uomo o una donna adulti a fare del proprio figlio (nipotino, cuginetto, figlioccio, piccolo allievo) ‘carne da like’.
Cosa sottenda questa ricerca compulsiva di visibilità ad ogni costo (compreso il rischio, tutt’altro che remoto, che la creatura indifesa sbattuta perennemente in bacheca finisca in una rete di criminali) è già da tempo materia di studio per gli psichiatri: per gli influencer più noti, è semplicemente questione di “mercato”, per la gente comune, portata ad imitare i suddetti, si tratta di dipendenza emotiva dal consenso altrui. Consenso che, nella società digitale, si manifesta principalmente attraverso la collezione di likes, sinonimo di apprezzamento e fonte di gratificazione da dopamina.
È dunque tempo di riflettere. Meglio se velocemente. E, se si ha qualche soldo da parte, anche di andare in terapia.
Daniela Marras
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