“Un giorno il coraggio bussò alla porta. La paura andò ad aprire e non trovò nessuno”.
Libero capovolgimento da M.L King
di Doriana Galderisi* – La strage di piazza Loggia del 1974, di cui proprio ieri c’è stato il ricordo con le celebrazioni ufficiali, avvia una riflessione sul terrorismo e sulle ferite che colpiscono l’intera collettività, oltre alle vittime e ai familiari.
Ferite che non si rimarginano, che, dopo tanti, possono non sanguinare più ma lasciare comunque cicatrici, per sempre. E queste cicatrici a volte si riaprono, come è successo quest’anno, anno in cui la “democrazia è ancora sotto attacco”, come ha dichiarato Manlio Milani, presidente della Casa della Memoria di Brescia e marito di Livia Bottardi, morta in piazza quel 28 maggio di quarantotto anni fa.
L’essere sotto attacco è proprio uno degli effetti dell’azione terroristica che, a differenza di un atto di criminalità organizzata che è più silenzioso e anonimo, ha invece proprio l’obiettivo di creare panico generale, disseminare terrore, far insorgere quella che, partendo da un concetto introdotto dal noto studioso polacco Zygmunt Bauman, ovvero il concetto di società sotto assedio, l’Associazione Europea di Psichiatria indica come “sindrome da società sotto assedio”.
Si tratta di una condizione psico-emotivo-comportamentale in cui le persone avvertono da un lato un grande e nuovo senso di vulnerabilità e, dall’altro, si sentono sotto attacco da più fronti: rischio povertà, rischio malattia, rischio morte.
Ciò può produrre una sorta di vero e proprio blocco psicologico, le cui conseguenze si riversano anche nella vita sociale, con alterazioni nelle condotte psico-sociali, ad esempio quelle relative alla partecipazione ad eventi collettivi come raduni, concerti, manifestazioni… o astensione da viaggi o comunque degli spostamenti utilizzando mezzi pubblici.
Disseminare la paura, spingere al ritiro sociale, stimolare la rinuncia alla partecipazione, indurre paura del terrore, questa è una condizione denominata “Deimosfobia”.
Nelle azioni terroristiche l’uso della violenza è scenografico, spettacolare, d’impatto perché lo scopo è di creare un effetto alone, cioè creare un panico di risonanza attorno all’azione, quindi, più che la quantità di vittime colpite, ciò che conta è il modo e lo shock derivante dall’azione prodotta.
Chi compie un’azione criminale solitamente cerca l’anonimato, chi invece commette una strage terroristica ricerca la spettacolarità, vuole colpire poche persone per influenzarne molte, ricerca l’attenzione mondiale per influenzare le scelte dei governi e per disseminare dubbi sulla legittimità degli stessi.
I terroristi agiscono nella convinzione di commettere azioni che, in qualche modo, rimettono a posto un errore o risarciscono un torto storico o un’ingiustizia sociale.
In ogni caso l’effetto emozionale e psicologico che un attacco terroristico produce nella comunità è potente e indelebile nella storia e nell’immaginario collettivo.
La comunità ne esce indebolita, la singola persona diventa diffidente e in un continuo stato di allerta, di sensazione di minaccia oscura e costante.
Ecco perché le ferite del terrorismo sono così profonde, ecco perché ancora oggi in piazza Loggia c’è chi piange al rintocco delle campane che risuonano ogni 28 maggio alle 10.12 in un rispettoso e luttuoso silenzio.
Ogni volta che avviene un attentato terroristico ci si interroga sullo stato di salute mentale di chi lo compie; ebbene, la ricerca scientifica e la letteratura indicano che non ci sono solidi fondamenti per derubricare l’azione terroristica a pazzia. In altre parole, dal punto di vista psichiatrico, la mente di un terrorista è da considerare “normale”.
Eppure questa “normalità” è difficile da accettare perché ci si tende a difendere dall’idea che chi compie tali atti crudeli, violenti, disumani, sia come noi. Vi è la necessità psichica di creare una sorta di distanziamento di fronte all’inconcepibile.
Oltre agli scopi politici o di imposizione di una visione del mondo, gli atti di terrorismo possono sottendere una volontà di affermazione, di eroismo.
A ciò si aggiunga che, nel contesto in cui noi tutti viviamo siamo collettivamente esposti a episodi, notizie e immagini di morti violente e di guerre e, purtroppo, ciò tende a creare un abbassamento dell’empatia, a squalificare il valore della vita che viene in sé “semplificata” e “oggettificata” (processo di reificazione).
Se poi consideriamo che il terrorista agisce convinto di compiere un gesto che in qualche modo è utile alla società, ecco allora che togliere la vita acquista per un terrorista tutta una serie di connotazioni giustificative che azzerano sentimenti come umanità, pietà, empatia.
In questa convinzione di essere nel “giusto” un terrorista trova una identità di martire e di eroe che si sacrifica per un ideale.
Questi sono solo alcuni degli aspetti che ritroviamo alla base della strategia della tensione che ha connotato il terrorismo che ha colpito, così a fondo e così pesantemente, anche la nostra città.
Proprio per contrastare la paura o la rassegnazione e il dolore che paralizza, proprio per contrastare tutto questo, è necessario ricordarsi di ricordare, cioè di non dimenticare. Ecco perché il lavoro della Casa della Memoria di Brescia e l’impegno collettivo per tenere vivo il ricordo della strage del 28 maggio 1974 è così importante per le generazioni future.
Sul valore della memoria da “coltivare per generare anticorpi democratici” è tornato anche il sindaco di Brescia Emilio Del Bono, presente, con il presidente del Consiglio Comunale Roberto Cammarata, alla commemorazione del 23 maggio a Capaci. Qui lunedì scorso è stato ricordato l’attentato mortale del 1992 al giudice Giovanni Falcone, alla moglie, Francesca Morvillo e ai tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Il nostro sindaco ha inoltre osservato che Brescia e Palermo sono accomunate dal sangue versato: sebbene la matrice delle due stragi sia diversa, “c’è qui a Palermo, come da noi, l’idea forte che la coltivazione della memoria sia generatrice di anticorpi democratici”.
È proprio il condividere la memoria collettiva l’antidoto più potente verso gli effetti deleteri delle azioni di orrore e di terrore. Per far sì che la frase di M.L King che apre questo articolo non sia mai più capovolta e che rimanga nella sua potente originalità:
Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno
A conclusione il pensiero va a tutte le vittime degli attacchi terroristici e, in particolare, ai nostri concittadini bresciani che voglio ricordare nelle loro specifiche identità.
Giulietta Banzi Bazoli
Livia Bottardi in Milani
Alberto Trebeschi
Clementina Calzari Trebeschi
Euplo Natali
Luigi Pinto
Bartolomeo Talenti
Vittorio Zambarda
Grazie per l’attenzione e ci ritroviamo tra 15 giorni.
Doriana Galderisi è padovana d’origine e bresciana d’adozione: lavora nel campo della psicologia da più di 27 anni con uno studio in via Foscolo, a Brescia. Esperta in: Psicologia e Psicopatologia del Comportamento Sessuale Tipico e Atipico, Psicologia Criminale Investigativa Forense, Psicologia Giuridica, Psicologia Scolastica, Psicologia dell’Età Evolutiva, Neuropsicologia. E’ inoltre autorizzata dall’ASL di Brescia per certificazioni DSA (Disturbi specifici di Apprendimento). E’ iscritta all’Albo dei CTU, all’Albo dei Periti presso il Tribunale Ordinario di Brescia e all’Albo Esperti in Sessuologia Tipica e Atipica Centro “il Ponte” Giunti-Firenze.
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