🔻 Velati, sensuali, spaventevoli… e altro: vicende di capelli nel Medioevo, anche bresciano | 🔺DAL GRUPPO G9
di LAURA GIUFFREDI* – E’ da poco in libreria il volume della docente e storica dell’arte, camuna d’adozione, Virtus Zallot, dal titolo Sulle teste nel Medioevo. Storie e immagini di capelli (Il Mulino, Bologna, 2021).
E non sembri argomento frivolo!
Si parte dai colori, e i capelli rossi sono individuati, già nella Bibbia sulla testa di Davide, come indicatori di un destino straordinario, ma altrove anche come marchio d’infamia e di peccato; fascinosi i capelli neri, se lucidi e brillanti, ammantati di esotismo, ma i santi, anche quando bruni, come San Francesco, vennero nelle rappresentazioni, progressivamente imbionditi. Perchè il biondo è “oro incarnato”, tanto raro quanto prezioso: “biondo era e bello e di gentile aspetto” è il Manfredi dantesco, e “i capei d’oro” della Laura petrarchesca, apparivano seducenti nella loro massa in movimento.
Se la canizie può inevitabilmente suggerire vecchiaia ed energie che scemano, sta anche spesso ad indicare saggezza, esperienza, paternità: e barba e capelli bianchi ha Dio Padre nell’Incoronazione di Cristo e della Vergine” negli affreschi di Giovan Pietro da Cemmo, in Santa Maria Assunta a Esine. Laicamente candidi sono i capelli dell’allegoria del “bene comune”, nel Buon Governo di Lorenzetti a Palazzo Pubblico di Siena. Ma siccome la saggezza era considerata virtù eminentemente maschile, i bianchi capelli in una donna sono indice di vecchiezza o, peggio, di bruttezza e decadenza.
La donna comunque parla attraverso i capelli, in un gioco complesso di velatura e disvelamento che fa oscillare il messaggio dalla seduzione alla ostentazione di castità e virtù. Prototipo della pericolosità della donna, coi suoi capelli svelati, è Eva, ma anche Maria Maddalena (ancora ad Esine, tra le Sante, lei è l’unica coi capelli sciolti, visibili sulle spalle, indicatori, poiché coronati da una ghirlanda di rose, del suo percorso di ravvedimento).
Il colore dà un giudizio, dunque, ma talvolta la semantica è ambigua e solo il confronto tra molteplici immagini consente all’autrice di tessere le fila di una mappa tanto ricca quanto complessa.
Un giudizio lo esprime, poi, anche lo stato della capigliatura: buona cosa curarsi i capelli, lavarli e spidocchiarli, ma l’eccessiva cura diventa indice di vanità, così come i capelli posticci che vorrebbero rimediare alla calvizie.
Le Sibille dipinte nel sottarco della chiesa di Santa Maria Annunciata a Bienno, da Giovan Pietro da Cemmo, abbigliate al presente (fine Quattrocento) documentano la moda corrente in tema di acconciature. Ma in genere, secondo i commentatori cristiani, la bellezza, anche della chioma, è inversamente proporzionale alla virtù, ed induce alla lussuria.
D’altra parte la vanità è anche maschile, antitetica, spesso, alla virilità, oltre che alla santità.
Eppure, capelli irsuti, e orribili, spettano prevalentemente a demoni e dannati, nonché alla personificazione dei vizi. In Santa Maria in Silvis a Pisogne, ancora Giovan Pietro da Cemmo affresca un gruppo di risorti con crani spogli, teste da cui spuntano radi peli e poi teste compiute ornate da belle chiome, come fasi di una progressiva ricomposizione e ritrovata dignità dei corpi .
Quindi vengono i gesti: disciogliersi o raccogliersi i capelli sono azioni che si associano rispettivamente al tema del dolore, quasi “urlo visivo”, e della compostezza, della disperazione o della fiducia, del lutto o della serenità.
Che dire poi del taglio dei capelli? Nel maschio assunse sempre valore altamente simbolico, ma oscillante tra l’ignominia e la gloria; così la tonsura, che disconosceva un erede al trono, oppure, cristianamente, sanciva un percorso di fede in un ordine monastico. Tra le donne, la scelta di tagliarsi i capelli come un maschio volle talvolta indicare l’adesione a valori virili, la rivendicazione d’indipendenza, la volontà di emancipazione dagli stereotipi del ruolo di moglie e madre; ma anche per loro, se non è una libera scelta, è senz’altro meccanismo di umiliazione.
Accapigliarsi e azzuffarsi, poi, sono modalità che prevedono un ruolo fondamentale della capigliatura: afferrata, strattonata, strappata, per gli uomini come per le donne, in caso di feroci torture e supplizi (si veda la sorte di Santa Giulia, come dipinta da Floriano Ferramola in Santa Maria in Solario a Brescia (1520): appesa per i capelli per subire poi lo strazio dei seni).
E comunque la violenza di genere a danno delle donne vide sempre nella presa per i capelli uno strumento formidabile.
Il percorso di questo accurato studio, che attraversa il medioevo, non senza rimandi ad altre epoche, si chiude inaspettatamente su alcuni riferimenti all’arte contemporanea, che utilizza i capelli in alcune performance o installazioni: quelle di Mona Hatoum nel suo Traffic (2005), dove i capelli legano valigie di migranti, o di Mandana Moghaddam, con le lunghe trecce che reggono un blocco di cemento in Chelgis II (2005), espressione della forza delle donne.
Nella conclusione Zallot ci ricorda che “le donne medievali donavano all’amato una ciocca dei propri [capelli] (…).Oggi altre donne ne offrono il taglio alle sfortunate che li hanno perduti per malattia o per curarla, rendendo accessibili le (altrimenti costose) parrucche a coloro che non potrebbero acquistarle” .
Una bella pagina di Storia, questa, non per nulla al femminile.
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