La Cassazione: offendere l’Arma dei Carabinieri su Facebook è diffamazione aggravata

Il giovane condannato aveva inveito contro il personale militare che lo avevansorpreso a orinare in una via pubblica: si era difeso affermando che nelle espressioni usate non cera riferimento ai destinatari né la possibilità di dedurne l’identità

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foto generica da Pixabay

Secondo un “nuovo” principio di diritto – chiarito da una sentenza della Cassazione – è diffamazione aggravata postare frasi offensive sui social network anche senza far nomi.

I giudici della Sesta sezione penale, infatti, hannio respinto il ricorso di un giovane che su Facebook aveva inveito contro l’Arma dei Carabinieri, sottolineando che basta il riferimento a un ampio novero di persone che appartengono a una determinata categoria per configurare la diffamazione (“Scatta la diffamazione aggravata per chi posta sui social network frasi offensive anche senza indicazioni nominative”).

Nel dettaglio, con la sentenza 2598/22, la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un giovane che su Facebook aveva inveito contro il personale militare che lo aveva fermato poco prima. All’imputato era stato contestato di aver espresso frasi minacciose nei confronti dei Carabinieri, che lo avevano sorpreso a orinare in una via pubblica e per aver, poi, pubblicato sul social network Facebook un post dal contenuto diffamatorio, sempre rivolto al personale militare che lo aveva condotto in caserma e identificato.

Il ricorrente è ricorso in sede di legittimità contestando il provvedimento in cui il giudice ha rilevato una condotta diffamatoria aggravata in quanto, a suo avviso, nelle espressioni virtuali usate non c’è stato nessun riferimento ai destinatari né la possibilità di dedurne l’identità. Insomma, le frasi diffamanti erano riferite ai carabinieri in genere e non a specifici componenti dell’arma. Per i giudici di Piazza Cavour il motivo è infondato perché “non osta all’integrazione del reato di diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione e lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone.

Nella sentenza gli Ermellini – rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” – spiegano come “l’individuazione del soggetto passivo deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, così che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca individuazione dell’offeso, sia in via processuale che come fatto preprocessuale, cioè come piena e immediata consapevolezza dell’identità del destinatario che abbia avuto chiunque sia entrato in contatto con la propalazione diffamatoria. Al verificarsi di tali presupposti, dunque, dovrà ritenersi configurabile il reato in esame anche quando l’espressione lesiva dell’altrui reputazione risulti apparentemente riferita, in assenza di indicazioni nominative, a un ampio novero di persone, identificato in ragione della appartenenza a un gruppo o una determinata categoria: ciò potrà verificarsi laddove, per le concrete dinamiche in fatto, la propalazione offensiva finisca per riguardare singole individualità ricomprese all’interno di tale più ampio novero di soggetti che siano (e possano sentirsi) concretamente e coerentemente individuabili come destinatarie di detta espressione”.


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Ultimo aggiornamento il 6 Aprile 2024 08:57

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