L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 49-50-51-52-53
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CAPITOLO XLIX
Per tutti i bambini della bergamasca e del bresciano il
giorno più felice dell’anno è il 13 di Dicembre. Nel
giorno in cui si festeggia Santa Lucia non vi è bambino,
anche se di famiglia poverissima, che non riceva qualche
dono. Santa Lucia, di origine siracusana, protettrice dei
ciechi, è ricordata anche perché elargì il suo immenso
patrimonio ai poveri. Da tempo immemorabile in quelle
zone ha preso il posto di Gesù Bambino e di Babbo Natale.
E’ giorno feriale ma le scuole rimangono chiuse per permettere,
a chi li riceve, di giocare con i regali portati
dalla Santa.
Anche in tempo di guerra, quando la povertà dilagava,
quasi nessun bambino rimaneva senza un regalo,
anche solo una fionda, fatta da un ramo biforcuto di
nocciolo con due pezzi di camera d’aria di bicicletta, o
una palla di pezza.
Quell’anno Ernesto quando si alzò, dopo una notte
quasi insonne per l’attesa, trovò un regalo magnifico che
lo fece impazzire di gioia. Un pallone di vero cuoio! Una
cosa difficilmente trovabile in un periodo di autarchia,
frutto, forse, di una ricerca fatta da suo padre.
Il pallone mandava un profumo del quale Ernesto si
riempì i polmoni. Gridando “Grazie, grazie, grazie!”
scese precipitosamente le scale in cerca degli amici con i
quali voleva condividere la sua gioia. Li trovò tutti con
in mano il loro regalo che presto dimenticarono attratti
da quella splendida sfera di cuoio che prometteva, finalmente,
di giocare veramente “al calcio” e non, come
erano abituati, con delle palle di stracci.
Si riunirono subito in piazza Mercato, fissarono dei segni
per stabilire i margini delle porte e poi cominciarono a
formare le squadre.
Grandi discussioni: coppie che avevano giocato per tanto
tempo insieme che non si volevano dividere ma che
erano costrette a farlo per equilibrare le forze in campo;
nessuno che voleva fare il portiere che è sempre destinato
a toccare pochi palloni e che, se si deve “tuffare” per
parare, nel caso specifico lo doveva fare su un terreno
ricoperto di sassi; il solito primo della classe che voleva
essere l’arbitro e giudice unico per punire, a suo piacimento,
i ragazzi che gli stavano antipatici; nessuno che
voleva in squadra il Bertolasi che era considerato un
veneziano perché non passava mai la palla; ecc. ecc.
Finalmente fu tutto stabilito. Si stava per dare inizio alla
partita quando, rombante, arrivò il sidecar dei tedeschi.
Il pilota andò a posizionarlo a dieci metri dall’albergo
Fumo, quasi al centro del campo ove si sarebbe giocata
la partita. I ragazzi protestarono rumorosamente ma il
tedesco non capì cosa volessero o, molto più probabilmente,
fece finta di non capire ed entrò nell’albergo.
Ci fu un veloce conciliabolo ma la frenesia nei ragazzi era
tanta e la partita ebbe inizio.
Quando la squadra di Ernesto vinceva per 2 a 0, ed il
nervosismo già dilagava nella formazione avversaria, il
Giacomino, terrore di tutti i portieri per le “staffilate”
che riusciva a far partire da due piedoni sistemati al ter-
mine di gambe possenti, si accinse a tirare una punizione.
L’intervento dell’arbitro e la punizione contro la
squadra di Ernesto era stata lungamente contestata ma,
alla fine, correttamente accettata. Il Giacomino intendeva
tirare direttamente nella porta che distava almeno 30
metri, prese una lunga rincorsa e fece partire un tiro violento.
Il pallone, colpito con troppa foga e non con la
punta della scarpa, non seguì la traiettoria sperata ma
andò a colpire violentemente il fanale anteriore del
motociclo tedesco, facendolo andare in mille pezzi.
Il silenzio che cadde in piazza fu interrotto dalle urla
del pilota del mezzo che, avendo assistito all’accaduto
dalla finestra della sua stanza al secondo piano, si era
precipitato giù dalle scale. Appena uscito il militare si
fermò, mettendosi le mani nei capelli, nel vedere il
disastro che si presentava ai suoi occhi. Si avvicinò lentamente
al motociclo, lo guardò con nello sguardo la
stessa apprensione con la quale un padre può guardare
un figlio gravemente ammalato. Fu uno sguardo
lungo, profondo, doloroso.
“Ciapal nel cul” disse sottovoce il Bettino che non perdeva
occasione per mettere in luce le sue doti di scurrilità.
Poi il tedesco si abbassò, prese il pallone che era rimasto
incastrato, non si sa come, tra la ruota anteriore ed il
telaio del sidecar. Con il braccio quasi lo circondò tenendolo
all’altezza della vita. Lentamente tolse il pugnale dal
fodero che aveva legato alla cintura. Alzò il braccio e fece
calare con violenza il pugnale sul pallone mentre un coro
di “NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO” si
levava dai bambini.
Buttò il pallone, squarciato e ormai inservibile, per
terra e guardò con aria di sfida i ragazzi che erano
rimasti impietriti.
Ernesto si fece avanti mentre i suoi amici lo guardavano
con amicizia e compassione. Arrivato all’altezza del tedesco
raccolse il pallone, o meglio quello che era rimasto
del pallone. Non disse neppure una parola ma lasciò andare
un violento calcio alla gamba dell’uomo che, però,
non subì alcun danno essendo riparata dai pesanti stivali.
Anzi, la cosa divertì molto il militare che se ne andò
ridendo scompostamente mentre il bambino, che reggeva
il pallone tra le braccia quasi fosse un essere vivente,
raggiunse il cancello della casa dei nonni e singhiozzando
si lasciò cadere a sedere per terra.
“Questa me la paga, giuro che me la paga”.
CAPITOLO L
Ci vediamo questo pomeriggio alle due al covo” aveva
detto l’Ernesto prima di raccogliere quello che era
stato un pallone e tornarsene, tristemente, a casa.
Adesso erano lì tutti in quel piccolo locale in pietra semidiroccato,
sulla stradina che portava al Castello. Era
abbandonato da anni e nessuno più ricordava chi fosse il
proprietario e perché fosse stato costruito. Conservava
ancora una porta che si apriva con difficoltà ostacolata dal
terriccio che si andava accumulando all’interno del locale.
Le due finestrelle erano prive di una qualsiasi chiusura.
Per i ragazzi era comunque il “covo”, il posto ideale, carico
di mistero, dove amavano trovarsi per organizzare
qualche avventura. Erano tutti eccitati perché, di sicuro,
come aveva preannunciato Ernesto si sarebbe presa una
decisione per vendicarsi del danno subito. Il pallone, anche
se aveva, o meglio aveva avuto, un unico proprietario
era come se fosse, o fosse stato, un po’ di tutti.
Fu eseguito il solito rito di introduzione. Tutti giurarono
solennemente, incrociando gli indici più volte sulle labbra,
che quanto detto o ascoltato non sarebbe stato riferito,
mai e per nessuna ragione, ad alcuno. Tutti sputarono
al centro del cerchio che avevano formato con i loro
corpi: era ritenuto un gesto scaramantico.
Poi iniziò la discussione. C’era chi suggeriva di fare una
dimostrazione sotto le finestre delle camere dei tedeschi
con cartelli pieni di offese; chi voleva pisciare all’interno
del vano del sidecar dove si ospita il passeggero; chi
ne voleva bucare le ruote; chi, ancora, molto più semplicemente,
voleva scrivere una lettera al Comando
Tedesco di Brescia chiedendo un nuovo pallone. Il
Bettino, che desiderava sempre esibirsi in volgarità, propose
che sulla carrozzeria del sidecar venisse scritto:
“Chi guida è una testa di cazzo”.
Alla fine prese la parola, nel silenzio generale, Ernesto.
Fu lapidario:
“Il sidecar? Glielo facciamo saltare in aria!”.
Tutti pensarono a una battuta. Tutti tranne il Mario che
capì subito che l’amico si riferiva all’impiego del candelotto
di dinamite trovato nel gabbiotto dell’Orto Fascista.
Ernesto, troppo emozionato dalla decisione presa,
disse al Mario di raccontare a tutti come poteva essere
fatta la cosa.
Un brivido di eccitazione corse nelle vene dei ragazzi. Si
stava affrontando una storia vera, una storia che sarebbe
passata ai posteri per la sua importanza. Fu deciso di
attendere che il motociclo venisse riparato. Poi, di notte,
lo avrebbero fatto saltare in aria.
Si accettavano volontari per compiere la vendetta. E’
inutile dire che tutti si candidarono, ma dovevano essere
al massimo tre o quattro i ragazzi coinvolti per non dare
troppo nell’occhio.
Il piano fu proposto da Ernesto. Ci aveva pensato e aveva
deciso che sarebbe stato il più semplice possibile: da portarsi
a termine nel giro di pochi minuti per non correre
il rischio di essere scoperti.
Venne scartato il Mario che abitava molto lontano e
avrebbe impiegato troppo tempo per raggiungere, dopo
il fatto, casa sua. Ernesto aveva pensato di usare la collaborazione
attiva del Giacomino, che abitava nella parte
ovest della vecchia villa dove anche lui abitava, e del Giovanni
Pivetti. Questo, anche se chiamato Cagasotto, per
non aver mai dimostrato molto coraggio quando c’era da
compiere qualcosa di pericoloso, era una ragazzo sveglio,
preciso e affidabile.
Per non demoralizzare nessuno Ernesto distribuì un incarico,
che lui definiva “speciale” a quasi tutti, in modo che
tutti si sentissero veramente partecipi al grande evento.
Lui e il Giacomino, verso le ventitré del giorno stabilito,
avrebbero raggiunto il motociclo e messo sotto il telaio il
candelotto di dinamite. Accesa la miccia, se la sarebbero
data a gambe per il vicolo dei Broli, quello che passa dietro
l’albergo Fumo. All’altezza del muro del cortile del
Giacomino, il Pivetti avrebbe fatto trovare una scala già
posizionata per poter raggiungere la cima del muro e calarsi
dall’altra parte. Dopo essere stata usata, la scala sarebbe
stata riportata nel fienile dei Pivetti e rimessa al
suo posto. Raggiunto il cortile, Giacomino sarebbe rientrato
a casa attraverso una finestra, lasciata appositamente
aperta, mentre Ernesto avrebbe raggiunto l’orto dei
nonni, scavalcando il muretto di divisione, e quindi anche
lui rientrato in casa sua.
Lo scoppio, che sicuramente sarebbe stato sentito da tutti
gli abitanti della piazza, avrebbe creato molta confusione
e paura e la presenza in giro dei bambini sarebbe rimasta
inosservata.
CAPITOLO LI
Passò una lunga settimana prima che i pezzi di ricambio
giungessero, probabilmente dalla Germania, ma
alla fine il nuovo fanale del motomezzo fu montato.
“Dobbiamo farlo questa sera” sussurrò Ernesto, che era
arrivato tardi a scuola e non ne aveva potuto parlare prima
con il Mario. “Passa parola, poi ti spiego. Tutti al
covo alle due”.
In breve tutti i ragazzi coinvolti furono avvisati e presi da
una grande euforia giustificabile dall’incoscienza della
giovane età. All’ora prestabilita erano presenti tutti. Furono
ripassate le parti ed apparve, tra l’emozione di tutti,
il famoso candelotto.
Ernesto spiegò che non vi era più tempo, perché sua
mamma sperava che il papà potesse venire a Breno per
passare con loro, in occasione del Natale, qualche giorno
di riposo. Lui, con in giro suo padre, non se la sentiva
di agire.
Purtroppo nessuno ancora possedeva un orologio da
polso e quindi ci si doveva attenere agli orari dettati
dal campanile.
Ernesto e Giacomino si erano organizzati per incontrarsi,
sempre nascostamente, la sera e tenersi compagnia ma
soprattutto tenersi svegli. Ma del Pivetti ci si poteva fidare?
Suo padre faceva il turno di notte presso la Ferriera e
usciva di casa alle 21. La madre, dopo una giornata di
lavoro, che iniziava alle cinque e mezza come addetta alle
pulizie nel locale ospedale, alla sera alle otto crollava per
la stanchezza e se ne andava a dormire. Addormentata la
mamma ed uscito il padre, il Pivetti avrebbe raggiunto
Ernesto e Giacomino, e insieme avrebbero atteso l’ora
per agire. E così si fece.
All’albergo Fumo l’Hauptmann Reserve Franz non riusciva
a dormire. Negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi del
Natale, aveva sempre più nostalgia della sua famiglia e
soprattutto della moglie. Sarebbe stato il secondo Natale
consecutivo che passava lontano da casa per combattere
una guerra che riteneva sempre più ingiusta e ormai definitivamente
persa. Non ce la faceva più a sopportare
quegli sguardi di odio che gli giungevano dagli italiani
quando girava per Breno o nei paesi vicini.
Superato il trauma per la morte di Berndt e per l’arrivo
dello Sturmbannführer, si era anche rammaricato di aver
trattato, la sera dell’attentato, in quel modo violento la
povera Benedetta che, sicuramente, non poteva aver partecipato
all’organizzazione dell’attentato. Con il suo
modo di fare aveva perso anche lei. Poter fare all’amore
con una donna che tanto gli ricordava sua moglie sarebbe
stato sicuramente un palliativo per la sua solitudine,
ma, comunque, un bel palliativo. Almeno dieci volte
aveva avuto la tentazione di avvicinarla e di scusarsi, ma
il suo “onore” di soldato aveva avuto sempre il sopravvento
e glielo aveva impedito.
Continuò a rigirarsi nel letto sino a quando gli venne
voglia di mangiare un po’ di cioccolata.
– Allora è vero – pensò – che la cioccolata è un aiuto alla
mancanza di affetto. Sono veramente messo male, alla
mia età. –
Si alzò, prese una delle tavolette che ogni tanto gli arrivavano
dal Comando di Brescia e si mise a mangiarla
avvicinandosi alla finestra.
Era una triste nottata, come tante altre con le luci spente
ed il silenzio assoluto del paese che dormiva.
Da tempo non pioveva, quell’anno non aveva neppure
nevicato e le strade del paese erano sporche, le case grigie.
Nel buio sembravano ancora più scure. Ah che bello
il suo paese in mezzo alle montagne della Baviera quando
la neve scendendo rendeva tutto candido e pulito. –
Che desiderio ho, che grande desiderio di pace! – pensò.
Quando il campanile cominciò a suonare gli undici
colpi, dal cancello di casa Ronchi uscirono tre bambini.
Due proseguirono tagliando diagonalmente la piazza in
direzione dell’Albergo; il terzo si diresse a destra raggiungendo
il vicolo dei Broli.
Franz, fermo davanti alla finestra, vide qualcosa muoversi
in piazza ma, al momento non vi fece caso, così
perso nei suoi nostalgici pensieri. Poi vide chiaramente
due bambini che si avvicinavano, con qualche cautela,
al sidecar.
– Due bambini? A quest’ora? Cosa ci fanno in giro due
bambini? Qualcosa di veramente strano. –
Cercò di capire se e come doveva agire. Probabilmente i
ragazzi volevano fare solo uno scherzo: magari sgonfiare
una delle ruote del motociclo. Ciò avrebbe mandato su
tutte le furie, la mattina dopo Sebastian, il conducente.
Se avesse aperto la finestra e si fosse messo ad urlare, o,
peggio ancora, avesse esploso un colpo di pistola in aria,
i ragazzi avrebbero desistito dal loro intento e sarebbero
scappati. Ma alle sue urla, o al colpo di pistola, tutta la
piazza si sarebbe svegliata, i ragazzi sarebbe nel frattempo
spariti, e lui alla vista dei brenesi sarebbe apparso come
un pazzo urlante, o peggio come un pazzo armato,
alla finestra davanti ad una piazza deserta.
Aprì comunque la finestra ma decise di attendere. I ragazzi
erano ormai arrivati al sidecar. Improvvisamente
vide una fiammella, poi sentì lo sfrigolio caratteristico di
una miccia che brucia.
E allora capì, ma era troppo tardi. Quando la deflagrazione
avvenne, lui era fermo, impalato davanti alla finestra,
incapace di muoversi.
Lo scoppio, pochi secondi di silenzio e poi il rumore dei
pezzi del motociclo che, dopo essere stati proiettati in
aria, ricadevano sull’acciottolato.
Fu questo rumore che lo richiamò alla realtà. Alla triste
realtà. L’Hauptmann Reserve Franz si sentiva svuotato
dall’onore di soldato che lo aveva sostenuto per tanto
tempo nelle avversità. Il suo onore era stato disintegrato
insieme al sidecar.
Cadde in ginocchio davanti alla finestra e si mise a piangere,
a piangere per quanto aveva perduto; per la guerra
che odiava e che non avrebbe mai voluto combattere; per
quel pazzo del Führer che voleva continuarla; per quello
che sarebbe stato il suo futuro, ora che per incapacità non
aveva saputo evitare l’attentato compiuto nientemeno che
da due bambini; per la prima linea, al fronte, alla quale
sarebbe stato inviato per punizione; per i grandi e sodi seni
di sua moglie che chissà per quanto tempo ancora non
avrebbe potuto baciare; per i biondi capelli dei sui figli,
che non vedeva da tanto, troppo tempo, e che aveva tanto
desiderio di accarezzare; per il suo bel paese che gli mancava
immensamente e che in quei giorni si apprestava a
festeggiare un Natale forse imbiancato dalla neve. Un triste
Natale, ma comunque sempre un giorno che è festa
solo in presenza di bambini e persone care.
Allungò una mano e prese da sopra il cassettone la pistola
di ordinanza. Pensò intensamente ai propri genitori
morti da poco, ai figli tanto amati, alla sua dolce moglie.
Poi ebbe una visione: sua mamma gli si avvicinava, gli
scompigliava affettuosamente i capelli come faceva
spesso quando lui era bambino, lo prendeva per mano
e lo portava con sé.
Ma questo avvenne prima o dopo che ebbe tirato il grilletto?
CAPITOLO LII
Icinque militari tedeschi, svegliati dall’esplosione, si
precipitarono fuori dall’albergo e rimasero in silenzio,
scioccati dallo spettacolo che era davanti ai loro occhi.
Il terreno stava ancora fumando e piccoli pezzi di quello
che era stato un sidecar erano sparsi dappertutto.
Nessun rumore proveniva dal paese; nessuna persiana si
era aperta anche se, sicuramente, gli abitanti della piazza
guardavano tra una stecca e l’altra il teatro dell’attentato.
Il pilota del sidecar si era chinato a raccogliere la sella del
posto di guida che era rimasta stranamente intatta. La
stringeva a sé guardandola intensamente, come se tra le
mani reggesse un figlio.
Dopo qualche minuto i militari si accorsero che in piazza
non vi era il loro comandante. Il soldato che aveva
preso il posto di Bernd come aiutante dell’Hauptmann
Reserve, si precipitò su per le scale per raggiungere la sua
stanza. La trovò chiusa a chiave. Bussò violentemente
senza ricevere alcuna risposta.
Allora si precipitò alla finestra del corridoio chiamando i
suoi commilitoni che lo raggiunsero di corsa. Il più grosso
dei cinque si buttò, di peso, contro la porta che si staccò
dai cardini cadendo rumorosamente a terra.
Sul pavimento giaceva il grosso corpo del loro comandante,
con il cranio sfondato dal colpo della pistola che
era ancora nella sua mano.
Gli uomini rimasero come paralizzati, mentre il senso di
rabbia che si era scatenato dopo quanto visto nella piazza
lasciava ora il posto allo sgomento e alla paura.
Sollevarono il corpo dell’Hauptmann Reserve e lo trasportarono
adagiandolo sul letto. Su quello che rimaneva del
viso appoggiarono il suo cappello per impedirne la vista.
Avvisarono di quanto era avvenuto nella stanza di Franz
il proprietario dell’albergo che, ancora in pigiama, si trovava
come inebetito sulla porta che dava sulla piazza senza
riuscire a pensare cosa sarebbe stato più logico fare.
Tramite la radio da campo informarono il comando di
Brescia dell’attentato e del suicidio del loro comandante.
Poi, in attesa di ordini, sempre più impauriti, si chiusero
in una stanza con le armi pronte a sparare.
Verso l’alba cominciò a nevicare. Ai radi fiocchi iniziali
fece seguito quasi una tempesta di neve che imbiancò in
breve tempo le strade, i grigi tetti di beole e i balconi
delle case.
Con un passa parola, sempre a persiane chiuse, tutto il
paese venne informato di quanto accaduto in piazza
Mercato e del suicidio dell’ufficiale.
Nessuno aveva il coraggio di uscire di casa temendo una
violenta reazione dei tedeschi.
Solo i bambini che, essendo le scuole chiuse si erano trovati
un insperato giorno di vacanza, cercavano di convincere
i genitori a lasciarli uscire, pregustando veloci discese
con lo scargiulì, la caratteristica povera slitta della Valcamonica,
sfruttando la prima neve dell’anno.
Dei soldati tedeschi nulla si sapeva. Rientrati in albergo,
dopo il sopralluogo in piazza, erano spariti e non si conosceva
quale decisione avessero preso.
In una calma apparente, verso le dieci il Podestà, accompagnato
dal comandante della Muti, si era recato all’albergo
Fumo per incontrare i tedeschi e mettersi a loro
disposizione. Ma non erano stati ricevuti.
Solo più tardi si decisero ad accettare la presenza del Parroco
che, dimostrando ancora una volta grande coraggio,
aveva raggiunto l’albergo per amministrare una tardiva
estrema unzione al morto.
Don Cappelletti si era fermato a lungo raccolto in preghiera
ai piedi del letto dove giaceva Franz.
Si riteneva in parte colpevole per l’accaduto, pensando
che l’espediente che aveva usato per evitare ritorsioni dei
tedeschi dopo il primo attentato avesse spianato la via al
secondo gesto dinamitardo.
Tutti in paese si domandavano chi avesse avuto il coraggio
di compiere questo atto, ben sapendo quali potessero
essere le reazioni degli occupanti sulla popolazione.
La neve continuava a cadere abbondante quando, verso
mezzogiorno, arrivò a Breno un autocarro Opel Blitz
6700 mandato da Brescia, con notevoli sforzi non essendo
attrezzato a percorrere strade innevate.
Il Comando tedesco di Brescia aveva infatti deciso di
recuperare il corpo dell’ufficiale e di far rientrare i soldati
rimasti, eliminando il presidio di Breno.
L’autocarro entrò nel cortile interno dell’albergo nel più
assoluto silenzio e con la piazza completamente deserta.
Il corpo di Franz fu sistemato in una bara inviata da
Brescia sul camion e sui sedili, ai lati del cassone, presero
posto i soldati con i loro zaini e i loro armamenti.
Quando l’autocarro ritornò sulla piazza, l’autista la trovò
occupata da centinaia di persone. Uomini e donne di
tutte le età, immobili, in silenzio.
Non erano venuti ad assistere alla partenza del nemico
sconfitto, ma per un atto di pietà verso il suicida. Rispetto
che forse solo gli italiani hanno verso la morte, chiunque
essa abbia colpito.
Il camion sparì agli occhi dei presenti nel turbinio di neve,
portandosi via i resti di un’avventura crudele, drammatica.
Ma solo un atto di quella tragedia più complessa
che è la guerra.
CAPITOLO LIII
Era quasi l’ora dei Vespri. Don Arlocchi stava leggendo
il breviario seduto in cucina, davanti al camino della
povera casa dove abitava. La legna si era completamente
consumata e le braci mandavano sempre meno calore.
Comunque il vecchio prete godeva ancora di quel tiepido
che rimaneva nella piccola cucina. Fra poco sarebbe
andato a pregare nella chiesa parrocchiale al gelo di quella
sera di dicembre.
Probabilmente sarebbe stato solo con il sagrestano: le
vecchiette non si sarebbero fidate ad uscire nelle buie
strade innevate e sdrucciolevoli.
– Potrei recitarli qui, i Vespri, magari invitando il Silestrini
– ma sapeva che non era possibile.
Il freddo gli acuiva i dolori alle giunture e gli complicava
la già precaria respirazione. Ma il sant’uomo offriva
tutte le sue sofferenze al buon Dio, con la speranza di
poter un giorno essere ammesso in Paradiso. Tutta l’eternità
in Paradiso! Nella più completa beatitudine.
A volte questo pensiero lo spaventava. La sua era stata
una vita di sofferenze, anche se per rispetto al Creatore
non voleva ammetterlo. Non era preparato alla gioia, al
benessere, alla beatitudine, appunto.
E se Dio si fosse indignato con lui nell’accorgersi che
non riusciva ad apprezzare appieno il dono che gli veniva
offerto?
– Quasi quasi mi converrebbe un passaggio dal
Purgatorio – aveva qualche volta pensato. Un modo per
pregustare quanto avrebbe raggiunto e per allenarsi a
goderne appieno.
Si alzò dalla sedia e stava per portarsi alle spalle il pesante
tabarro che lo avrebbe riparato nel tragitto sino alla
chiesa, quando sentì bussare.
– Speriamo non sia un seccatore, se no finisce che arrivo
tardi in chiesa – pensò. Aperta la porta si trovò davanti
tre bambini che parve riconoscere.
“Cosa volete bambini? E cosa fate in giro a quest’ora
al buio? Dunque, vediamo se ricordo bene. Tu sei
l’Ernesto, il nipote del Generale, tu… aspetta, aspetta,
sei il Giacomino e tu il figlio del Pivetti. Ma non mi
ricordo il nome.”
“Sia lodato Gesù Cristo, padre. Sì sono il Giovanni
Pivetti.”
“Cosa volete da me? Ditemi in fretta che devo andare in
chiesa a recitare i Vespri e magari qualcuno mi aspetta.
Mi sa che non ci sarà nessuno ma ci devo andare lo stesso.
Forza, chi parla per primo?”
I tre si guardarono brevemente tra loro e poi, come d’accordo,
fu l’Ernesto a parlare.
“Don Arlocchi, volevamo sapere se è peccato far saltare
in aria un sidecar. Soprattutto se è un peccato mortale.”
Il prete rivide davanti ai suoi occhi la scena dell’incontro
con il Russì e con il farmacista e la loro confessione.
– Ma questi sono tre bambini! Cosa si stavano inventando?
Saranno mica stati loro a provocare lo sconquasso
della notte precedente? Probabilmente vogliono coprire
il vero colpevole. Ma perché queste cose sempre a me
capitano? Quando succedono fatti strani e violenti sempre
da me vengono. Oltre al dolore alle giunture, al freddo
della casa, alle strade innevate, che a percorrerle ho
sempre il terrore di cadere, adesso mi arriva tra capo e
collo anche questa grana – questi pensieri gli affollarono
la mente mentre si sentiva venir meno.
– Cosa rispondere a questi bambini? Sì, certo, far “saltare
in aria” un sidecar, come loro avevano detto, non era
certo un’opera buona. Era sicuramente far del male al
prossimo perché il sidecar un proprietario ce lo aveva di
sicuro. Quindi c’era di mezzo il secondo comandamento
dei cristiani. Ama il prossimo tuo e quindi non fargli
del male. Oppure il settimo. Non rubare! Distruggere
una cosa d’altri è un po’come rubargliela.
Ma… come affrontare l’argomento? Con dei bambini, poi. –
“Sentite ragazzi, questa è una cosa un po’ complicata.
Una cosa da grandi. Mica si può risolverla così sui due
piedi. Chi ha fatto qualcosa di male venga a confessarsi.
A tempo debito e nel posto giusto. Io non ho capito bene
cosa avete tentato di dirmi. Comunque, a scanso di
equivoci, pregate, pregate la Madonna che fa sempre bene.
E adesso scusatemi ma io devo andare. Filate a casa
che i vostri genitori vi staranno aspettando e magari sono
in pensiero. Sia lodato Gesù Cristo” e chiuse la porta.
I ragazzi corsero giù dalle scale e, appena in strada, si fermarono.
La neve continuava a cadere e ormai aveva superato
i trenta centimetri.
Rimasero un attimo in silenzio e poi il Giacomino disse:
“Ve l’avevo detto io che non avevamo fatto nessun peccato.
Se no il don Arlocchi ce lo avrebbe detto e avrebbe
preteso che ci confessassimo subito. Ciao ragazzi, ci ve-
diamo domani!” e se ne andò correndo.
“Penso proprio che abbia ragione lui. Ciao” disse Giovanni
e anche lui si allontanò di corsa.
– Meno male! – si disse l’Ernesto e, rinfrancato, si avviò
verso casa.