L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 43-44
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CAPITOLO XLIII
Alle undici meno un quarto uno sbraitante Sturmbannführer
entrò nella casa – prigione, accolto dalle
due SS che erano di guardia. Le sue urla svegliarono
anche gli altri quattro militari che stavano dormendo al
piano superiore e che, dopo qualche minuto, giunsero,
rivestiti in qualche modo, davanti al loro Comandante.
Questi continuava, urlando, ad impartire ordini. La
porta della cantina fu spalancata e tutte le sei SS si precipitarono,
urlando a loro volta, nello scantinato.
I poveri prigionieri furono fatti alzare, spintonati su per
le scale e, quindi, fuori dalla porta che dava sulla strada:
terrorizzati e certi di essere condotti al luogo ove sarebbero
stati fucilati.
Ma la porta si chiuse alle loro spalle senza che nessuna
delle SS fosse uscita. Dopo qualche momento di intontimento
capirono di essere in strada tremanti, al freddo,
affamati, assetati, ma liberi. Quando furono sicuri che le
SS non avrebbero sparato su di loro, si diressero verso il
centro del paese. I più giovani si misero a correre, urlando,
lungo il corso principale. Le prime finestre si aprirono,
nelle stanze le luci si accesero e, pian piano, tutto il
paese si accorse della loro liberazione.
Solo don Pompeo, che si era avviato con gli altri, ritornò
sui suoi passi ed andò a battere, con violenza, al portoncino
della casa. Gli aprì lo Sturmbannfürher in persona,
con occhi spiritati mentre un filo di bava gli scendeva
dalle labbra.
Il Parroco, in modo concitato ma comprensibile, spiegò
che il Fausto, rimasto nella cantina, doveva essere prelevato
e portato in ospedale. Quattro SS scesero e ritornarono
trasportandolo a braccia. Stavano per adagiarlo sul
piano della strada quando il Parroco si avvicinò alla vettura,
con la quale era giunto lo Sturmbannfürher, aprì la
portiera posteriore ed indicò il sedile sul quale il ferito,
che continuava a lamentarsi ed a piagnucolare, venne
disteso. Salì anche don Pompeo e, rivoltosi all’ufficiale
tedesco, gli urlò: “Ospedale. Subito!”
L’autista si rivolse al suo Comandante e, avuta tacita
approvazione, si mise al volante e partì alla volta dell’ospedale.
Il Silestrini, il sagrestano, stava facendo all’amore con la
moglie, come tutti i sabati sera con la data dispari. Un
tacito accordo che andava bene a lei perché non la impegnava
troppo di frequente, ma che serviva ad alimentarle
ancora la speranza di conoscere cosa potesse essere un
orgasmo – “una cosa meravigliosa” le aveva detto la sua
migliore amica con la quale era in confidenza – che non
aveva mai raggiunto. Bene per lui che, a 62 anni, desiderava,
per piacere e per curiosità questa pratica. La curiosità
di verificare le sue capacità sessuali bimensilmente:
era per lui come timbrare il cartellino.
Incuriosito dalle urla che arrivavano dal Crusal sino a
casa sua, interruppe il rapporto. Si rivestì velocemente,
raggiunse il luogo da dove provenivano gli schiamazzi e,
avuta la buona notizia, si precipitò al campanile della
chiesa ove iniziò un vero concerto di campane.
Intanto quasi tutte le case si erano svuotate; uomini,
donne e bambini correvano vociando da una parte all’altra
attorno ai liberati. Nella piazzetta davanti al municipio
fu acceso un grande falò. Il Ducoli aprì il bar, offrendo a
chi entrava nel locale bicchierini di grappa, versandone
abbondantemente anche per sé. Le sedie del bar furono
portate intorno al fuoco ed offerte agli ex detenuti.
Persino il Podestà, dopo aver mandato a verificare che
non vi fossero in giro tedeschi e militi della Muti, venne
a congratularsi per lo scampato pericolo. Qualcuno portò
bottiglie e bicchieri, pane e salame che vennero offerti
agli affamati. Ristorati, questi cominciarono a raccontare
quanto avevano sopportato in quasi 24 ore di prigionia,
soffermandosi, con particolari agghiaccianti, su
quanto era toccato al Fausto, solo dopo che i genitori del
loro collega di sofferenze avevano lasciato i festeggiamenti
per correre in ospedale.
Arrivato al nosocomio il Parroco aveva chiamato due
infermieri che erano corsi con una barella dove avevano
adagiato il povero Fausto portandolo in infermeria. Il giovane
medico di turno, che mai aveva visto nulla di così
raccapricciante, non sapeva bene cosa fare. Fausto perdeva
ancora sangue dalle ferite al viso ed alle gambe e sembrava
privo di conoscenza. Don Pompeo ordinò che venisse
immediatamente chiamato il professor Parola, il primario
chirurgo dell’ospedale che abitava in una bella villa vicina.
Nel frattempo medico e infermieri avevano denudato il
corpo del ferito tagliando a pezzi i vestiti che indossava,
onde evitare pericolose torsioni a gambe e braccia.
Il Fausto aveva, per fortuna solo nella parte anteriore del
corpo, lesioni ed ecchimosi che interessavano pratica-
mente tutta la superficie della pelle. Il volto, alla luce
delle lampade, apparve a don Pompeo ancora più devastato
di quanto sembrasse nella penombra dello scantinato
ove erano stati tenuti. Le ossa e le cartilagini delle
ginocchia sembravano distrutte ed i tendini strappati.
Il professore, arrivato in pochi minuti, si chinò sul povero
corpo e lo esaminò a lungo e con scrupolo. Non mosse gli
arti inferiori in attesa di una radiografia, auscultò cuore e
polmoni e si assicurò che non vi fossero fratture al cranio.
Con aria grave si avvicinò al prete e ai genitori di Fausto
e, con quella sua voce calda e col tono rassicurante che
per tanti malati valeva più di una medicina, disse:
“Intervenire chirurgicamente ora è impossibile. Secondo
me il paziente non potrebbe sopportare un’anestesia.
Rischiamo di farcelo morire sotto i ferri. Ha perso molto
sangue ed è in un gravissimo stato di shock. Procediamo
con delle trasfusioni e rimandiamo l’intervento a domani.
Cerchiamo di tenerlo sedato. Ce la farà!”
Poi, rivolto ai soli genitori continuò: “Vi sconsiglio di
vederlo questa sera. Non è un bello spettacolo: con il
viso così gonfio e con le ferite che sanguinano sembra
molto più grave di quello che in effetti è. Fatevi coraggio
e pazientate sino a domani mattina.”
Si iniziò a disinfettare le ferite ed a lavare il sangue
coagulato. La pulizia rivelò altre macchie bluastre dove i
violenti colpi non erano riusciti a lacerare la pelle. Sembrava
che nessuna parte del corpo fosse stata risparmiata
da un’azione di precisa e sistematica violenza. Chi l’aveva
eseguita era sicuramente un allenato professionista.
In paese erano arrivati anche molti abitanti delle frazioni
vicine attirati dal suono festante delle campane e dalla
luce del falò che illuminava l’oscurità della notte. Qualcuno,
che non era a conoscenza dell’arresto dei 18, pensava
che fosse finita la guerra ed i tedeschi se ne fossero
andati. Altri che fosse scoppiata la rivoluzione e che
la popolazione avesse avuto la meglio sui crucchi. Tutti,
comunque, furono felici per lo scampato pericolo ed
approfittarono dell’assenza dei tedeschi, che erano rimasti
chiusi o nell’albergo Fumo o nella casa del Salvetti,
intonarono chi “Bandiera Rossa”, chi il “Va’ pensiero”,
chi, chissà perché, il “Garibaldi fu ferito”. La
gran festa finì solo all’alba con il Ducoli che contava 18
bottiglie di grappa vuote, decine di bottiglie di vino,
altrettanto vuote, agli angoli delle strade e almeno cinquanta
ubriachi che dormivano, russando beatamente,
appoggiati ai muri delle case.
Alle sette del mattino successivo il prof. Parola entrando
in ospedale fu bloccato dalla Cia “Pastera”.
La Cia era una donna di poco più di quarant’anni, magra
scheletrica che viveva con due sorelle minori, una delle
quali afflitta da un grosso gozzo – cosa abituale in quei
tempi e in quelle zone ove l’alimentazione era priva di
sufficienti valori nutrizionali – nella vecchia casa di famiglia.
Il soprannome derivava dal fatto che i suoi genitori,
dopo una breve parentesi passata da emigranti in
America, ove avevano fatto una discreta fortuna, rientrati
in paese avevano aperto un piccolo laboratorio ove producevano
pasta fresca e, soprattutto, dei “casunsei” che
erano conosciuti in tutta la valle per la loro bontà. Una
specie di ravioli il cui contenuto è fatto da un elaborato
miscuglio di erbe alpine e carne di maiale. Veramente si
sussurrava che la carne usata per i ripieni fosse quella dei
gatti che loro allevavano in grande quantità o che catturavano,
con spiccata abilità, tra quelli dei vicini.
Era una donna dal carattere di ferro. Come si diceva allora:
una donna con gli attributi. Dopo aver frequentato le
prime tre classi elementari era stata mandata dai genitori,
che non avevano tempo e voglia di occuparsi di lei,
presso le suore del paese ove la bambina era stata avviata,
con grandi risultati, all’arte del ricamo. A diciotto
anni era riuscita, nonostante la giovane età e la totale
inesperienza, a lavorare presso un ospedale da campo
nelle retrovie del fronte della Grande Guerra.
Rifiutata dai medici per la giovane età li aveva, dopo lunghe
insistenze, convinti dicendo che se al fronte andavano
i “ragazzi del 99”, lei, che aveva la stessa età, poteva
essere impiegata ad assisterli.
Senza preamboli disse al Parola:
“So che il Fausto Domeneghini ha riportato delle brutte
ferite che potrebbero lasciargli il viso devastato. La
prego, signor professore, lasci che sia io a ricucirlo per
tentare di salvare il salvabile.” Il professore rimase basito
a tale proposta.
Conosceva la Cia per fama sapendo che la moglie le aveva
affidato il restauro di vecchi arazzi che, dopo il suo intervento,
erano ritornati come nuovi. Sapeva anche della sua
esperienza fatta nell’ospedale militare, ma come pensare
che la donna potesse entrare, come un normale medico o
un infermiere specializzato, in sala operatoria? D’altra parte,
il suo staff di chirurghi era limato all’osso e l’intervento
al viso, per non prolungare troppo l’anestesia al Domeneghini,
avrebbe dovuto essere compiuto mentre lui
operava i ginocchi. Si consigliò con i suoi colleghi, chiese
l’autorizzazione ai genitori di Fabio e, dopo lunga meditazione,
diede l’autorizzazione all’intervento di Cia.
Quando le ferite furono rimarginate e il gonfiore sparito,
il Parola si compiacque con sé stesso per aver accettato
la collaborazione della donna. Il risultato era inimmaginabile
tanto che il Fausto, quando ritornò guarito a casa,
fu battezzato “Il merletto”.
CAPITOLO XLIV
La giornata successiva fu ricca di avvenimenti significativi.
L’operazione alle ginocchia di Fausto, che dopo le numerose
trasfusioni praticategli aveva dato segni di una notevole
ripresa, era stata più semplice del previsto. I legamenti
non erano stati offesi in modo serio. Rimosso un
menisco ridotto a pezzettini e ricostruita la parte molle,
l’intervento era terminato in modo soddisfacente.
Tutta l’equipe medica aveva avuto agio di seguire il lavoro
della Cia. Con una pazienza da certosino e con
una perizia incredibile aveva preso con una pinzetta le
parti di carne lacerate, le aveva rimesse nella primitiva
posizione e quindi le aveva cucite l’una all’altra con
microscopica precisione. Mai un tentennamento, mai
una necessità di rivedere l’operato. Ma soprattutto mai
un momento di nervosismo e di repulsione verso la terribile
visione del viso di Fausto.
Don Mandelli era giunto a Breno con il treno delle 8,20.
Si era recato direttamente alla casa del Parroco ed aveva
trovato don Pompeo che si era alzato da poco, dopo la
interminabile nottata, e stava facendo colazione.
Il Parroco aveva intenzione di recarsi in ospedale ma l’arrivo
del Segretario del Vescovo lo bloccò. Incaricò l’Elvira
di andare a raccogliere notizie, pregandola di fargliele
avere al più presto: “Che siano buone, mi raccomando!”
Versò una tazza di quello che ci si ostinava a chiamare
caffè al collega di Brescia e, il più sbrigativamente possibile,
gli raccontò quanto era avvenuto la sera precedente.
Non accennò al suo intervento né a quanto aveva raccontato
ai tedeschi: lo avrebbe fatto direttamente al Vescovo.
Intanto don Arlocchi aveva organizzato tutto perché la
messa delle 10 fosse solenne, con la presenza del coro e
delle associazioni cattoliche. Don Pompeo offrì al Mandelli
di celebrarla quale rappresentante del Vescovo, ma
il sacerdote rifiutò dicendosi comunque felice se avesse
potuto concelebrarla.
La chiesa era stracolma. In prima fila i 17 prigionieri con
le loro famiglie e, circondati affettuosamente da tutti, i
genitori del Fausto finalmente sorridenti dopo le buone
notizie che il Parola aveva loro comunicato personalmente.
Giunti all’omelia, don Pompeo salì sul pulpito e guardò
il suo gregge, visibilmente commosso.
“Il nostro primo atto doveroso” iniziò, “è di rivolgere a
Dio una preghiera di ringraziamento. Diciotto di noi
erano in pericolo di vita e lui li ha salvati. Diciotto innocenti
che non avevano commesso alcun atto riprovevole
stavano per essere puniti duramente. Dio, che sempre
dall’alto sorveglia il suo popolo non lo ha permesso. Sia
gloria a Dio! Lui ha guidato la mente di qualcuno che,
indegnamente, ha portato la sua parola a chi aveva in
mano la sorte dei nostri compaesani e li ha fatti ragionare.
Solo il nostro caro Fausto ha conosciuto la durezza
degli aguzzini. Preghiamo perché possa rimettersi al più
presto. Ai suoi genitori, che sono un poco più sereni
dopo le buone notizie che giungono dall’ospedale, l’abbraccio
di tutta la comunità ed il mio personale. Voglio
pubblicamente ringraziare il nostro caro coadiutore don
Arlocchi che, con presenza di spirito e con la grande fede
che è in lui, ha immediatamente reagito al mio arresto
compiendo l’atto che doveva essere compiuto. Informare
immediatamente il nostro amato Vescovo che oggi ha
voluto partecipare alla nostra gioia inviandoci il suo Segretario
particolare. Ed a lui, perché lo porti a sua Eminenza,
il nostro grazie. Grazie don Mandelli!
Abbiamo un grande Vescovo. Un uomo che non ha esitato
a mettersi in gioco, con grande coraggio e abnegazione,
per salvare le sue pecorelle. Il coraggio di affrontare
il Comando tedesco esigendo grazia per chi era stato
derubato della propria libertà e della propria dignità di
uomo. Fra pochi giorni festeggeremo Santa Lucia. Preghiamola
perché possa aprire gli occhi a tutti i governanti
del mondo, affinché cessino le guerre, le lotte tra un
popolo e l’altro, tra un gruppo di uomini e un altro che
magari parlano la stessa lingua.
Ed ora lasciatemi ringraziare personalmente Dio. In queste
ultime terribili ore mi sono accorto di non essere stato
un buon pastore per voi. Ho trascurato di lenire le
vostre sofferenze, le vostre solitudini. Di ascoltare, come
dovrebbe fare un padre, le vostre parole, le vostre richieste.
Rispondere ai vostri dubbi con l’esempio che, sempre,
un buon pastore dovrebbe dare. Non ne ero capace.
Non ne avevo la forza. Ve ne chiedo perdono. Ma vi assicuro
che quanto ho vissuto mi ha rafforzato. Nonostante
quello a cui sono stato costretto ad assistere ho riscoperto,
al di là del male, l’umanità degli uomini, la gioia del
perdono che è l’unica strada che ci può condurre a Dio.
Vi prego di aiutarmi e di sorreggermi nel cammino che
sto per intraprendere. Avrò bisogno del vostro aiuto e
della vostra comprensione perché anch’io sono solo un
pover’uomo. Sia lodato Gesù Cristo”.
Vi fu un lungo minuto di silenzio. Poi, forse per la prima
volta in una chiesa, scoppiò un lungo e caloroso applauso.