L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 41-42

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L'Orto Fascista di Ernesto Masina, capitoli

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CAPITOLO XLI

Il fatto che il Parroco non avesse partecipato ai Vespri
senza averlo avvertito preoccupò molto don Arlocchi.
Infatti tutte le volte che don Pompeo non aveva potuto
intervenire a una cerimonia per una qualsiasi ragione, si
era sempre premurato di avvisare il suo coadiutore.
Finita la recita del rosario aveva affidato la chiusura della
chiesa al Silestrini, il sacrista, e si era diretto alla casa parrocchiale
per avere notizie del suo superiore. Probabilmente
non stava ancora bene: alla mattina quando lo
aveva incontrato, anche se pieno di verve, era pallido e
visibilmente stanco.

Quando arrivò in parrocchia gli aprì l’Elvira. Neppure
lei aveva notizie di don Pompeo ed era preoccupata anche
perché era la prima volta che il Parroco non le aveva
dato le solite precise istruzioni per la cena.

“Fammi sapere, per favore, quando torna e come sta. La
cosa è strana e sono veramente preoccupato. Chissà che
cosa gli è successo?”

Si diresse verso la sua povera casa cercando, tra sé e sé, di
trovare una spiegazione plausibile, ma non gli veniva in
mente nulla di accettabile. Entrato nel portico si trovò
improvvisamente davanti a una persona che, al momento,
non riconobbe. Era una donna che, tenendosi stretta
al corpo una pelliccia, tremava visibilmente.
Capì infine che era l’Annetta, la bella figlia dell’avvocato
Duchi.

“Cosa ci fai qui sulle scale? Cosa è successo?” le chiese
calmo perché stava iniziando ad abituarsi alle visite strane
in ore altrettanto strane. La donna si alzò in piedi e
gli si buttò tra le braccia piangendo.

“Ma cosa è successo, benedetta ragazza? Calma, calma
vieni di sopra e raccontami tutto” e presala per un braccio
la guidò verso il suo appartamento.

In cucina la fece sedere, riempì un bicchiere d’acqua e
glielo porse. Si tolse il tabarro, la sciarpa di lana ruvida
che gli aveva fatto la sua perpetua ed una specie di papalina
che portava sempre all’aperto, estate e inverno.

“Bevi un sorso d’acqua. Se vuoi ti scaldo un caffè. Ma
calmati, benedetta ragazza, che mi metti in confusione.
Ci mancava anche questo, con tutti i pensieri che ho già
per la mente”.

“Li ammazzano tutti di botte, li ammazzano don Arlocchi.
Oggi hanno picchiato a sangue il Faustino, il figlio
del pasticcere, lo conosce, vero? Forse è morto” balbettò
tra i singhiozzi la donna.

“Ma chi, ma cosa? Io non capisco. Oh povero me, Signore
Gesù, Madonna santa, aiutatemi, io non ce la faccio più.
Calmati, prendi fiato e raccontami tutto se vuoi che capisca”
e anche lui si lasciò cadere su una seggiola.

Annetta si asciugò gli occhi, si soffiò il naso e, dopo aver
tirato un paio di lunghi sospiri, raccontò tutto quello che
era successo in sua presenza. Ogni tanto veniva interrotta,
per chiarire qualche particolare, da un don Arlocchi
sempre più agitato e che aveva iniziato a sudare abbondantemente.
Quando Annetta arrivò a raccontare che il
Parroco aveva riferito ai tedeschi di aver confessato due
uomini di un paese vicino che si attribuivano la respon-
sabilità di aver ucciso il soldato tedesco, don Arlocchi
fece un salto sulla seggiola rimanendo con la bocca spalancata.

Alla fine del lungo racconto il povero prete non
sapeva più a che santo votarsi. Com’era il fatto che due
persone avevano confessato al Parroco di aver ucciso il
soldato tedesco se a lui lo avevano raccontato due persone
diverse? Ma quanti erano quelli che avevano fatto l’attentato?
E perché avevano arrestato il suo Parroco se questi
non aveva agito diversamente da quanto avrebbe fatto
un altro sacerdote?

Le idee in testa si ingarbugliavano e lui cominciò a passeggiare
avanti e indietro per la piccola stanza, brontolando
tra sé e sé e cercando di mettere in ordine i fatti. –
Un padre, un fratello, il Russì, il farmacista Temperini.
Ma non è che Annetta aveva capito male? Il Russì e il farmacista
non avevano sorelle ma, se per questo, non avevano
neppure più un padre. E se uno dei due fosse andato
a confessarsi anche da don Pompeo? Ma con quale
scopo? Lui non aveva negato l’assoluzione, l’aveva solo
rimandata. E poi di quelle cose così delicate meno gente
ne sapeva meglio era. Ma se anche fosse andata così, il
padre da dove spuntava? Oh Signore, io ti ringrazio per
avermi fatto arrivare alla mia età senza dover affrontare
grossi problemi. Ma negli ultimi tempi non è che stai un
po’ esagerando? A me, un povero prete di campagna,
non è possibile dare tutte queste responsabilità. Io non
ce l’ho l’esperienza. A ognuno la sua croce, va bene. Io se
devo portarla la porto, ma per dare aiuto agli altri in
certe situazioni si deve avere o la predisposizione o l’esperienza.

E io non ho né l’una né l’altra. Oh Signore e
adesso io cosa faccio? Guidami tu, ti prego. Diciotto par-
rocchiani in carcere che rischiano di essere uccisi e con
loro il mio Parroco. No, scusami Signore, ma è troppo.
Madonnina, anche tu, dai, non negarmi il tuo aiuto. –

“Annetta, vai cara, adesso tu vai a casa. Io mi metto a pregare
e qualche soluzione la trovo, vedrai. Se è possibile te lo
faccio sapere. Non dire niente a nessuno, per ora. Un segreto
tra noi due. Se lo sanno in paese chissà cosa può succedere.
Prendiamo tempo sino a domani mattina. E se puoi
datti malata e non frequentare più quelle belve. Va’, va’
adesso. E prega anche tu per me che ne ho bisogno”. Così
dicendo l’accompagnò alla porta che poi chiuse a chiave.
La prima idea sensata che venne a don Arlocchi fu quella
di avvisare il Vescovo di Brescia. Era un atto dovuto
che permetteva anche di diminuire tutte le sue responsabilità.
Mettersi nelle mani di un superiore, ascoltare i
consigli, eventualmente eseguire gli ordini era la cosa
migliore. E poi del Vescovo si diceva un gran bene. Era
ostile ai tedeschi ma era riuscito a farsi rispettare e, in
alcune occasioni, anche a farsi ascoltare. Dicevano avesse
salvato molte persone da morte certa. Ma queste notizie
si bisbigliavano solo tra amici perché non si poteva
dire liberamente che i tedeschi uccidessero gli italiani.

Aveva ancora davanti mezz’ora prima della chiusura del
centralino. Doveva fare in fretta, perché alle 20 le linee
venivano interrotte d’ufficio e le comunicazioni cessavano.
Si rivestì velocemente, prese quei pochi soldi che aveva
dal cassetto della scrivania e corse verso l’ufficio postale,
all’interno del quale vi era un piccolo spazio con il tavolo
per la centralinista e due cabine telefoniche insonorizzate
alla bell’e meglio. La centralinista, che era occupata
a quell’ora a soddisfare, con le poche linee esistenti, le
tante richieste di utenti che volevano telefonare, per un
buon cinque minuti non diede retta al prete. Poi, senza
neppure salutarlo, rispose alla sua richiesta di chiamare
l’Arcivescovado di Brescia dicendo che se lui non aveva
il numero neppure lei lo conosceva.

“E’ una cosa estremamente urgente, cara signorina” disse
con un tono di voce e un cipiglio anche a lui sconosciuto

“O lo cerca lei sull’elenco o mi dà l’elenco e lo cerco
io. Tutto questo con estrema sollecitudine, per favore”.

La donna, che conosceva il prete come una persona timida
e introversa, fu colpita dal suo modo di fare e capì
quanto la cosa fosse grave. Dopo pochi minuti disse:

“L’arcivescovado di Brescia è in linea sulla due” riferendosi
alla cabina numero due. Don Arlocchi, preso sempre
più dai propri pensieri, ai quali si aggiungeva il disagio
di dover parlare direttamente con il suo Vescovo, non
capiva. Allora la centralinista gli fece cenno con la mano
e il prete entrò nella cabina.

“Scusate il disturbo. Mi spiace tanto disturbare, davvero.
Ho bisogno con urgenza di conferire con sua Eccellenza
il Vescovo. E’ una cosa così importante, sa? Deve proprio
passarmelo”.

“Le passo il Segretario. Aspetti!” rispose una voce sgarbata
ed asettica. Dopo un tempo che a don Arlocchi sembrò
lunghissimo, una voce da bambino malato chiese:

“Chi vuol parlare con Sua Eminenza a quest’ora? Soprattutto
per quale motivo?” e ribadì “A quest’ora”. Come
per dire: ma dovete proprio disturbare in questo momento
quando stiamo andando a cena?
“Sono un prete, sa, il coadiutore del Parroco di Breno,
signor Segretario mi dispiace, sa, ma devo proprio parla-
re con Sua Eminenza. E’ una cosa grave e riservata”.

Il Segretario, probabilmente offeso dal fatto che lo si
volesse saltare per una “cosa grave e riservata” – lui che
del Vescovo godeva grande fiducia – avendo anche saputo
degli arresti avvenuti a Breno, perdonò il suo interlocutore.
“Vedo di fare quello che posso sperando di rintracciare
Sua Eminenza” come se non sapesse che il prelato
si era appena accomodato a cena nella grande sala da
pranzo del palazzo vescovile.

“Sono il Vescovo” arrivò alle orecchie di un tremebondo
don Arlocchi il suono caldo e suadente del prelato “Sia
lodato Gesù Cristo. Cosa posso fare per voi, figliuolo?”
A questo punto, trovandosi in comunicazione con un
personaggio così importante che lui aveva solo visto, e
ammirato, a distanza, e con il quale non era mai riuscito
a parlare né l’unica volta che era stato in Arcivescovado,
né durante le visite pastorali a Breno per la somministrazione
delle cresime – tenuto sempre a debita distanza dal
Parroco che voleva, solo lui, apparire al Vescovo – il cervello
del povero prete andò, letteralmente, in acqua.

“Sia lodato anche Lei Santità, no, scusate, Sua Eminenza.
Mi prostro e bacio l’anello a Sua Eccellenza. Mi deve
tanto scusare se la disturbo. Ma sono… in ambasce, sì,
credo si dica così. Insomma non so proprio come dire.
Ma qui a Breno stanno succedendo cose enormi, incredibili.
Sì, proprio un’Apocalisse. Il Parroco è stato arrestato
dai tedeschi perché ha detto che in confessione un padre
ed un figlio hanno ucciso un soldato tedesco. Non so se
sa. L’attentato lo chiamano. Ma io non so, perché io so
che l’attentato lo hanno fatto altri due che hanno confessato
a me, e la donna… non si sapeva nulla di una donna
messa incinta, con rispetto parlando, Sua Eminenza. Sa
io di queste cose non so, non capisco nulla. E adesso li
vogliono ammazzare, tutti e 19, perché sono 18 più il
Parroco. Vogliono ammazzare a bastonate i tedeschi. Ma
no, cosa dico, oh Signur aiutami tu! Sono i tedeschi che
vogliono ammazzare a bastonate i 18 che sono poi 19
perché c’è anche il Parroco don Pompeo Cappelletti, che
Lei Eminenza sicuramente conosce. Io non so cosa fare.
Mi aiuti Sua Eccellenza, mi aiuti, la prego”.

Il Vescovo che aveva cercato più volte di fermare lo sproloquio
di don Arlocchi senza riuscirvi, in un momento
di pausa, che il coadiutore si era preso per tirare il fiato,
riuscì a intervenire. Con un tono fermo ma dolce, come
se parlasse ad un bambino, riuscì a dire:

“Si fermi, figliuolo. Glielo ordina il suo Vescovo. Non
parli e mi ascolti. Io non ho capito nulla di quanto ha
cercato di dirmi. Ora io le farò delle domande ben precise
e lei mi risponderà con calma e con precisione. I
fatti, solamente i fatti e nulla di più. Ha capito?”

“Oh Sua Eccellenza, sì, ho capito, credo di aver capito.
Sa io sono un povero prete ignorante di campagna e mi
confondo quando parlo con Sua Eminenza. Che poi non
è che ci sono abituato, che è la prima volta. Comunque
mi domandi, per favore ed io, prostrato davanti a Sua
Eccellenza, cercherò di rispondere nel modo migliore”.

Il Vescovo iniziò a fare semplici domande precise e a ricevere
risposte semplici e coerenti. Dopo dieci minuti era
riuscito a rendersi conto della situazione e, non lasciando
trasparire la rabbia che lo aveva assalito per il comportamento
dello Sturmbannführer, cercò, prima di salutare
l’Arlocchi, di rassicurarlo promettendogli che non
sarebbe stato lasciato solo. Non prendesse nessuna iniziativa
prima che il suo Segretario, che avrebbe raggiunto
Breno con il primo treno dell’indomani mattina, non si
fosse messo con lui in contatto.
Solo dopo il termine della telefonata il Vescovo si rese
conto di non aver neppure chiesto il nome al suo interlocutore.

CAPITOLO XLII

Quel don Cappelletti, devo dire, non mi è mai piaciuto.
Sempre sfuggente, un po’ viscido, mai un
sorriso, con quel suo tono di voce monocorde…” stava
dicendo al suo Segretario, dopo una parca cena consumata
velocemente. “Ma, devo ammettere, una persona
decisamente furba. Ha messo in scacco i tedeschi. O
quanto racconta è vero e allora non possono né costringerlo
a parlare, né possono uccidere degli uomini per
pura vendetta e non quale ritorsione, trattandosi di un
comune delitto, o si è inventato una grossa menzogna.
Ma anche qui i tedeschi non possono fare nulla contro la
popolazione. Si verrebbero a conoscere le parole del
Parroco, i tedeschi sarebbero anche accusati di stupro e,
dal punto di vista strettamente politico subirebbero una
grande debacle. Sicuramente anche i fascisti non sarebbero
d’accordo e la frattura già esistente tra loro e gli
alleati tedeschi si amplierebbe a dismisura”.

“Don Mandelli, desidero che lei vada domani mattina a
Breno, prima possibile. Non in auto perché apparirebbe
una visita ufficiale. Può prendere il primo treno. La
dispenso, data la gravità del fatto, di dire messa. Arrivato
lassù contatti quel buon uomo del coadiutore”.

“Si chiama don Arlocchi, Eminenza” lo interruppe il
Segretario.

“Ecco, bene contatti don Arlocchi e poi, con le sue rico-
nosciute abituali cautele, si informi presso la popolazione.
Quali sono state le reazioni agli arresti, quali i pensieri
su don Cappelletti… beh, lei sa bene come fare in
questi casi. Più si sa e meglio è. Rimanga a Breno tutte
le ore necessarie, ma se ritiene vi sia qualcosa che devo
sapere mi telefoni immediatamente. Mi pare io non abbia
impegni fuori dall’Arcivescovado domani. Controlli,
per favore. Anzi, mi lasci la lista delle cose che devo fare
e delle persone che devo incontrare. A meno che la situazione
di Breno si aggravi e allora saltino tutti i programmi.

Un’ultima cosa, amico mio. Io intendo incontrare
questa sera stessa il Comandante della Gendarmeria tedesca
per riuscire a capire se e quali decisioni hanno
preso. Lei mi accompagnerebbe? So che è molto stanco e
che domani mattina dovrà alzarsi all’alba, ma abbiamo
dedicato la vita a Dio e, quando è necessario, non possiamo
risparmiarci”.

“Sempre a Sua disposizione, Eminenza. E’ solo un grande
piacere poter collaborare con Lei e soddisfare i suoi
desideri”.

“Ecco, bravo, troppo buono. Chiami i tedeschi, chieda
del Colonnello Von Prisch e, se glielo passano, gli dica
che voglio, meglio desidero, incontrarlo. Se è così gentile,
olio, mi raccomando olio, di accettare ci andiamo subito
e lei viene con me. Voglio un testimone… anzi,
prenda appunti di quello che dirò. Potrebbe sempre servire
a rinfrescarmi la memoria in caso di necessità”.
Quando la telefonata giunse al Comando tedesco, il
Colonnello Von Prisch era in una concitatissima riunione
iniziata alle 18 quando era giunta da Breno, portata
da un motociclista, la dettagliata relazione dello Sturm-
bannführer. Von Prisch si era reso subito conto della gravità
della situazione e aveva convocato nel suo ufficio il
capo locale delle SS, il responsabile della polizia politica
e i suoi collaboratori diretti.

La situazione in Italia era sempre più complicata. Il numero
dei partigiani aumentava di giorno in giorno, la
popolazione italiana era sempre più ostile e gli alleati anglo-
americani, anche se bloccati temporaneamente all’altezza
di Cassino, non erano sicuramente intenzionati a
diminuire i loro sforzi di raggiungere velocemente il nord.
Von Prisch, come tanti degli ufficiali tedeschi, aveva
capito che la guerra per loro era persa e che bisognava
pensare al dopo, evitando di creare nuovi motivi di reazione
da parte della popolazione italiana.

Mettersi apertamente contro il Vaticano, poi, pretendendo
da un sacerdote di tradire il suo mandato in un momento
così delicato, sarebbe stato un nuovo passo falso.
Chiaramente le SS, tanto invaghite del loro Führer da
non capire che ormai erano pura follia le sue azioni assetate
di sangue, pretendevano che venisse compiuta un’azione
punitiva nei confronti degli arrestati. Anche senza
una prova della loro colpevolezza. Per fortuna il peso del
pensiero delle SS nei comandi militari diminuiva continuamente.
Venivano considerati dei rompiballe, anche
se dei temibili rompiballe.

All’arrivo del Vescovo il colonnello fece uscire tutti dal
suo ufficio. Spalancò le due finestre per liberare la stanza
dal fumo dei sigari e delle troppe sigarette che i militari
avevano nervosamente fumato nel corso delle 3 ore
di riunione. Fece accomodare il prelato su una delle due
comode poltrone Frau che si era portato con sé nel corso
dei numerosi spostamenti e alle quali non voleva rinunciare
per nessuna ragione. Quando vi si sedeva a riposare
– e la cosa avveniva sempre più raramente – si sentiva
un po’ a casa sua. Gli erano state, infatti, regalate da frau
Angela, la sua adorata moglie che non vedeva ormai da
oltre un anno, per arredare il suo vero primo ufficio a
Karlsruhe quando, promosso al grado di Haupmann, era
stato mandato a comandare quel distretto.

Prese posto nell’altra lasciando che il Segretario usasse
una sedia alle spalle del Vescovo.

Dopo i primi convenevoli, il colonnello si alzò, prese una
scatola di sigari – conosceva l’unica debolezza del Vescovo
– la porse all’ospite che, con un ampio sorriso, dimostrò
la sua riconoscenza. Ignorando poi il Segretario,
ne scelse a sua volta uno e si rimise a sedere.

Sembrava un normale incontro tra amici. Mancava solo
un bicchiere di un buon vino d’annata o un sorso di
brandy per renderlo più piacevole. Ma il colonnello era
diventato drasticamente astemio dopo che il padre,
alcoolizzato, era morto di cirrosi epatica. Due uomini di
azione, come erano i nostri, non potevano perdersi in
lunghi convenevoli. Il primo a introdurre lo scontato
argomento fu il Vescovo.

Con parole durissime condannò il modo di agire di questi
giovani ufficiali.

“Non dico solo tedeschi sa, caro colonnello. I giovani
d’oggi sono tutti cresciuti nutrendosi di materialismo e
la parte spirituale dell’esistenza, che dovrebbe essere la
predominante, è misconosciuta, dimenticata e calpestata”.
Tornando ai fatti specifici, dichiarò inaccettabile che
un sacerdote fosse stato incarcerato unicamente perché si
rifiutava, secondo le regole canoniche, di infrangere il
segreto della confessione.

“Non ho ancora riferito nulla alla Santa Sede ma sarò
costretto a farlo se niente avverrà entro 24 ore. Non vuole
essere un ricatto, caro colonnello, ma anch’io ho dei
superiori ai quali sono tenuto a riferire”.

Con grande meraviglia del Vescovo e del suo Segretario la
risposta di Von Prisch fu pronta e chiara. Riteneva il giudizio
del Vescovo sui giovani un po’ troppo severo ma condivideva
la preoccupazione che le nuove generazioni non crescessero
più con quei principi e quella cultura che erano
sempre stati il vanto di nazioni come l’Italia e la Germania.

“Mala tempora currunt” continuò il colonnello, “e quando
è in pericolo la sopravvivenza, la parte spirituale della
vita, inevitabilmente, passa in secondo piano”.

Al colonnello, che parlava un italiano fluente, piaceva
mettere in evidenza la sua cultura e, quando aveva avuto
occasione di incontrare il Vescovo, gli aveva confessato,
un po’ vantandosene, un po’, da uomo di preparazione
militare, vergognandosene, di aver effettuato profondi
studi di filosofia all’università di Bamberg.

“Ma veniamo ai fatti di oggi” proseguì il Colonnello. “Io
sono d’accordo con Lei che la cosa è stata mal gestita, lo
stavo proprio sostenendo poco fa con i miei aiutanti.
Sono lieto della sua visita perché ho l’occasione per chiederLe
di collaborare perché tutto venga messo a tacere.
Noi rilasceremo gli uomini arrestati e il suo sacerdote. Il
suo sacerdote non comunicherà a nessuno quanto ha
saputo in confessione. Lei quindi non ha saputo nulla e
tanto meno il Vaticano. Affossiamo tutto”.

“Mi sembra un accordo ragionevole, signor colonnello”
rispose il Vescovo che non aveva sperato tanto e cercava
di nascondere la gioia che lo aveva invaso.

“E come faccio ad essere sicuro che verrà rispettato?”

“Promissio boni viri est obbligatio, ammesso che Lei mi
ritenga un uomo onesto”.

“Certo, lo penso. Anzi ne sono sicuro” rispose il Vescovo.

“Abbia la compiacenza di attendermi un attimo. Ho un
motociclista che deve rientrare a Breno e devo comunicargli
le nostre decisioni. Poi finiremo, in santa pace – mi
passerà questo termine signor Vescovo – i nostri sigari”.

“Sa, quasi quasi gli chiedevo se il motociclista non potesse
dare a lei un passaggio sino a Breno. Poi mi è sembrato
sconveniente, non per lei, ma per il colonnello” disse il
Vescovo, che era preso da un’incontrollabile allegria dopo
la tensione di tutte le ore precedenti, mentre lui e il suo
Segretario rientravano in arcivescovado. Il Segretario non
capì lo scherzo e rimase in silenzio a testa bassa.

“Domani mattina però, la prego, vada ugualmente a
Breno. Magari non con il primo treno, ma presto comunque,
per controllare che tutto si risolva, effettivamente,
nel migliore dei modi. Mi spiace di non poter
avvisare io il povero don… come si chiama, ah sì, Arlocchi,
ma se il motociclista arriva per tempo e l’ordine
viene eseguito subito, in paese si farà sicuramente festa e
anche lui vi parteciperà”.

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