L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 35-36
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CAPITOLO XXXV
Pompeo era stato ordinato sacerdote a 24 anni. Tutti
passati nella menzogna. Aveva iniziato il “mestiere”
di prete come quello di un qualsiasi impiegato, senza una
vera fede e senza seguire i buoni insegnamenti che gli
erano stati impartiti.
Il Vangelo era solo una guida da seguire per convenienza
e per non creare problemi con i suoi superiori ai quali
si rivolgeva sempre con falsa e viscida deferenza, pronto,
in ogni occasione, a rispettare i loro desideri.
Aveva trovato apprezzamento presso il Vescovo che gli
aveva permesso dapprima un breve periodo passato
come coadiutore in uno piccolo paese della bassa bresciana,
ad aiutare un vecchio Parroco un po’ rimbambito,
poi, dopo la trasferta in Spagna – che aveva sollecitato
come una missione pericolosa contro gli atei comunisti –
di diventare Parroco.
Prima in una parrocchia di Cremona, ove aveva trascorso
10 anni, e poi, con sollievo dei propri parrocchiani
che certo non lo amavano, era arrivato a Breno.
Ora, a 40 anni, cercava disperatamente di non fare un
esame di coscienza per non sentirsi quello che in effetti
era: un povero disgraziato. Ma gli ultimi accadimenti avevano
sgretolato questo muro che aveva da tempo costruito
tra lui e la sua coscienza. E fu così che quella notte
dovette prendere atto di quanto aveva peccato. Di non
aver mai amato il proprio prossimo, di non essere stato
un pastore per le pecorelle che gli erano state affidate, di
aver pensato solamente ai suoi egoismi e ai suoi vizi.
Si girava e rigirava nel letto che era diventato troppo duro
e, gli pareva, pieno di spine. La testa in fiamme; un sudore,
a volte caldo e a volte ghiacciato, gli bagnava tutto il
corpo. Dapprima pensò che tutto dipendesse da un
improvviso attacco cardiaco ma poi capì che era il rimorso
ad agitare la sua mente e a provocargli queste reazioni.
Pensò a Cristo, là sulla croce a pagare per i peccati degli
altri, soprattutto per i suoi. Troppi!
Aveva bisogno di una riconciliazione, aveva bisogno,
finalmente, di aprire all’amore quel suo cuore così malato
di presunzione, egoismo, falsità. Passò in rassegna i
comandamenti e ammise di averli disubbiditi tutti, dal
primo all’ultimo, più volte. Ebbe, improvvisamente, un
sincero desiderio di redenzione, quasi fosse stato veramente
fulminato da Dio che gli aveva impresso nella
mente, tutte insieme e contemporaneamente, le malefatte
che aveva compiuto.
Senza accorgersene si trovò inginocchiato a lato del letto a
pregare. Non tanto per chiedere perdono a Dio, ma per
domandare la grazia che lo rinsavisse, che gli facesse iniziare
una nuova vita. In remissione dei peccati, certo, ma
soprattutto per poter dare agli altri, a tutti gli altri, l’amore
che, come fratelli, meritavano. Mettersi al loro servizio.
Passò tutta la notte a pregare e meditare, bagnando le
coperte del letto, ove aveva appoggiato la testa, con le lacrime
della vergogna prima, e con quelle della speranza poi.
Era talmente rapito dai suoi pensieri, da questo nuovo
stato di grazia che non aveva mai conosciuto, che si ac-
corse solo dopo qualche minuto del bussare insistente
alla porta della camera.
“Chi è?” chiese con amarezza dovendo abbandonare
quella nuova gradita situazione.
“Sono l’Elvira, signor Parroco. Devo parlarle con urgenza.
E’ successa una cosa gravissima. Devo dircela, per favore”.
“Preparami un caffè, per piacere, che mi vesto e vengo
subito”.
– Per piacere?- pensò l’Elvira che aveva sempre solo ricevuto
ordini sgarbati dal suo Parroco. – Deve stare veramente
male o ha perso la testa – e corse in cucina a preparare
il caffè.
Don Pompeo arrivò dopo qualche minuto, spettinato,
mezzo vestito e senza neppure le ciabatte.
“Oh, signor Parroco” iniziò la donna. “Mi fa piacere che
stia meglio perché c’è bisogno di lei in paese. E’ successa
una cosa terribile! Quelli della Muti e i todeschi questa
notte hanno arrestato almeno 25 tra uomini e donne.
Li hanno portati tutti nella casa del Salvetti, sa quella che
c’è sulla strada per Bienno. Li hanno messi giù in cantina
e li mazzano tutti se non viene fuori il colpevole della
morte del todesco. In paese sono tutti terrorizzati. Anche
il Podestà, mi ha detto il don Arlocchi, che tra l’altro ci
vorrebbe parlare, non sa come comportarsi. Tutti spettano
lei che quelli della Muti la rispettano e, come prete,
mi scusi sacerdote, la devono stare a sentire”.
“Va bene, va bene” rispose il Parroco. “Un po’ di calma,
mica si prendono 25 persone e le si ammazzano subito.
Daranno un po’ di tempo… Per favore, vai dal don Arlocchi
e digli se può venire. Ma adesso che ore sono? Le
sei e mezza. Vai quando finisce la messa, non disturbar-
lo prima che se no si spaventa ancora di più”.
Andando verso il bagno, per lavarsi, un’idea lo colpì.
Dio, nella sua immensa bontà, aveva creato subito una
situazione nella quale lui avrebbe potuto agire iniziando
una nuova esistenza.
– Grazie, Padreterno. Te ne sono grato ma per favore guidami
tu. Come tu sai io non ho molta esperienza nel fare
le cose buone! – E, forse per la prima volta, da anni, gli
venne da sorridere.
CAPITOLO XXXVI
In paese era arrivato uno Sturmbannführer delle SS
con 6 militi. Avevano requisito l’albergo Fumo, buttando
fuori anche due vecchietti che da tempo vivevano
a pensione.
A riceverli era stata una Benedetta tremante che aspettava,
ancora e con grande terrore, di conoscere la sua sorte.
Nella grande camera da pranzo avevano spostato i tavoli,
lasciando una gran parte dello spazio per una scrivania
con poltrona riservata al Comandante.
Questi era un trentenne magro magro, con due baffetti
alla Führer sotto un grande naso. Pochi ciuffi di capelli e
occhiali con spesse lenti. Non ricordava affatto la tanta
decantata razza ariana se non per la durezza dei modi,
evidenziata da un frustino da cavallerizzo che teneva
sempre in mano e che usava, nei momenti di maggior
tensione, colpendosi il palmo aperto della mano sinistra.
Stivali lucidissimi, la divisa nera sempre impeccabile e il
cappello con il teschio completavano la sua immagine
spietata e lugubre.
Appena installatosi nell’albergo aveva fatto cercare un
interprete. La scelta era caduta sulla figlia del miglior
avvocato di Breno, tale Annetta Duchi che, avendo studiato
per anni in Svizzera, conosceva il tedesco abbastanza
bene. Era una giovane bella donna: alta, bionda con
due luminosi occhi azzurri. Lei sì, l’immagine della
“sacra” razza ariana. La donna, di sicura fede fascista,
aveva accettato con entusiasmo quello che, più che un
invito, era stato un vero e proprio reclutamento.
Attraverso Annetta aveva contattato il Comandante della
locale Brigata Muti, ponendo subito in chiaro che a
comandare, nella ricerca del o dei colpevoli della morte
del militare tedesco, sarebbe stato lui.
Volle un resoconto dettagliato di quanto era stato fatto
sino ad allora e, dimostrandosi assai insoddisfatto, aveva
accusato l’italiano di assoluta inefficienza, inettitudine e,
quasi, di connivenza con il nemico. Chiese chi potesse
essere considerato avversario del Regime sia in paese che
nei dintorni.
“Voglio al più presto una lista dei sospetti: nomi, cognomi
e indirizzi” tradusse Annetta. “Al più presto” aggiunse
la donna, “vuol dire entro 5 ore”, facendo quindi segno
al Tenente della Muti che poteva andarsene.
Convocò quindi il Maresciallo dei Carabinieri al quale
contestò l’inefficienza sua e dei suoi militari che non
avevano impedito a dei delinquenti comuni di essere
in circolazione.
“Voi siete esonerato dall’inchiesta. Non mi fido delle
vostre capacità e di quelle dei vostri uomini. Tenetevi,
comunque, a mia disposizione” tradusse ancora Annetta
che cominciava a prendere gusto alla posizione che ricopriva,
quasi che i maltrattamenti e gli ordini li impartisse
veramente lei.
Anche il Maresciallo dei Carabinieri era sistemato.
Avrebbe anche convocato il Podestà facendo quindi
sapere a tutti che il comando affidatogli non aveva limiti
e che poteva agire prendendo qualsiasi decisione.
Da tutti pretendeva rispetto e ubbidienza assoluta: che
questo fosse chiaro sia a Breno che in tutta la valle.
Dopo qualche ora, con in mano i nominativi dei sospetti
e con l’aiuto della Muti, organizzò una retata che
avrebbe avuto luogo nel corso della notte successiva con
la cattura di 18 uomini, che facevano parte della lista dei
sospetti sovversivi, e la loro carcerazione.
Ritenendo che le carceri del paese fossero insicure e troppo
vicine al centro del paese – non adatte a coprire le urla
di chi aveva programmato di interrogare sotto tortura – su
indicazione del Comandante della Muti provvide alla
requisizione di una vecchia casa, isolata e lontana dal paese
qualche centinaio di metri, sulla strada che conduce a
Bienno. La costruzione, alta due piani, presentava quattro
locali per piano e delle ampie cantine ove sarebbero stati
ospitati i prigionieri. Il proprietario, tale Bettino Salvetti,
terrorizzato, aveva, a richiesta, consegnato immediatamente
le chiavi, mostrandosi quasi felice gli fosse data
occasione di collaborare con le forze di occupazione.
– Se vinceranno loro – pensò – si ricorderanno della mia
collaborazione. Se vinceranno gli altri, potrò sempre dire
di essere stato costretto con la forza a consegnare le chiavi
e, forse, potrò anche ricevere un piccolo rimborso per
il danno subito! –
Nel corso della notte sei squadre, composte da un soldato
del gruppo comandato da Franz, da una SS e da
un’appartenente alle Brigate Muti, percorsero il paese nel
massimo silenzio e, al termine di un’azione, assolutamente
ben congegnata, all’alba avevano catturato i 18
abitanti del paese presumibili collaboratori nell’uccisione
del soldato tedesco e li avevano portati, imbavagliati
e incappucciati, nelle cantine della casa del Salvetti. A
guardia dell’improvvisata prigione due militari al piano
terra e due SS munite di mitragliatore alle finestre dell’abbaino,
con l’ordine di sparare su qualsiasi persona si
avvicinasse con fare sospetto o minaccioso.
L’interprete fu convocata per le 16 di quella giornata per
presenziare e collaborare agli interrogatori.