BAGLIOR DI LUCE – racconto di Umberto Tanghetti
Dalla seconda stanza si accedeva, attraverso la porta a vetro, ad un cortile interno dalla forma regolare: era un piccolo fazzoletto, forse poco più lungo che largo, delimitato su tre lati da costruzioni a tutta altezza e sul lato di destra, da una struttura ad un piano, un magazzino, il cui tetto era la terrazza dei vicini del piano di sopra: lì dentro venivano depositati attrezzi e vecchie cisterne per il vino.
Superata la porta a vetro, uscendo dalla seconda stanza, si mettevano i piedi su di un pavimento cementizio frutto di un lavoro anni 50, anni durante i quali, la smania di progresso aveva male inteso il concetto dell’estetica e così, il precedente acciottolato si era trovato sommerso da quel liscio manufatto: molto pratico sicuramente, ma vuoi mettere coi ciottoli rimasti sotto!
Al centro del cortile cresceva una palma che faceva ombra e tutt’intorno, piante rigogliose, tra le quali due limoni in vaso.
Questa che a tutti gli effetti era una stanza a cielo aperto, il cielo in una stanza per davvero, metteva in comunicazione la famiglia a piano terra con quella di sopra.
“Zia Lina?!” diceva Graziella da su.
“Ccà semu!” rispondeva Zia Lina da giù.
E queste due parole volevano dire tutto: se avete bisogno siamo qua.
E viceversa.
“Paniere!”
E Graziella lo calava e lo ritirava su con un carico di fichi appena giunti dalla campagna.
Oppure al contrario era lei che lo calava con dentro i dolci di mandorla.
“Zio Nanà, mi finì u leviteddu (pasta di lievitazione per fare il pane)
“Cala u Panaro Graziè!”
“Graziè, comu semu?”
“Un mi pozzo arriminare! (muovere)”
E così esser vicini, ma discreti era un piacere. Presenti, ma staccati; uniti, mai invadenti.
Non eran le parole a plasmare i contenuti (lavoro inutile, incoerente, un barocco esercizio d’impotenza), ma erano i gesti, quelli concreti e asciutti, a dare significato allo scarno eloquio.
Che se poi si voleva chiacchierare per davvero si creava l’occasione e non ci si tirava certo indietro!
La Sicilia è proprio quel paniere che collega un piano all’altro;
è la possibilità di relazione tra gli umani, è il rispetto e la vicinanza.
La Sicilia è quest’essenza, ieri ed oggi incrostata dalla spocchia di chi ha eroso la propria rendita e di chi da sempre vive a ruota.
La Sicilia è quella voglia di riscatto di chi sa fare cadere queste incrostazioni, è quella capacità di mettersi allo specchio e guardarsi dentro fino in fondo.
La Sicilia è quel sottile filo che collega il piano superiore a quello sottostante: non importa che sia vuoto o che sia pieno quel contenitore, è solo una possibilità di unirsi ad altra gente.
È vuoto ora e ondeggia leggermente al vento di scirocco e con lui anche le fronde della palma.
Il profumo del limone ti accompagna e lo sguardo volge in alto: un rettangolo di cielo terso, con il sole che si staglia su uno dei quattro muri che ne delimitano lo spazio.
Passa un piccione con le ali aperte e ferme sfruttando la corrente: la gatta, appollaiata sul serbatoio d’acqua, lo degna appena di uno sguardo.
In sottofondo un’operetta suona:”O cincillà” riecheggia tra quelle quattro mura ancora oggi e se ne sente il riverbero nel cuore (..i fiori son le tue catene..).
Ecco che questo cortile che comunemente viene detto baglio, appare più propriamente come un baglior di luce che irradia fuori e dentro.
Questa, agli occhi di chi la sa guardare, è la Sicilia vera, quella che tralascia gli specchietti per le allodole stereotipati ed è fiera della propria essenza.
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