L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 25-26-27-28

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L'Orto Fascista di Ernesto Masina, capitoli

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CAPITOLO XXV

Isuoi grossi seni erano giusto all’altezza del viso di
Franz. Lui vi affondò la testa, irritando leggermente la
pelle delicata con i suoi ispidi baffi. Poi le posò le due
mani sulle natiche attirandola a sé. Le baciò il seno, prese
in bocca un capezzolo succhiandolo dolcemente. Fece lo
stesso con l’altro seno. Le mani intanto scendevano verso
il basso ad accarezzare l’interno delle cosce.

Per Benedetta erano tutte sensazioni ed esperienze nuove:
mai il suo corpo aveva ricevuto delle attenzioni così delicate,
almeno per quanto lei si ricordasse. La mano di lui
andò a cercare la mano della donna e la accompagnò verso
il suo membro, ormai eretto, tenendola sino a quanto
lei non lo avvolse con la sua mano. Poi ritornò ad accarezzarle
le cosce e infine le grandi labbra.

Per tutti e due il tempo sembrò fermarsi. Benedetta, che
aveva temuto un brutale assalto da parte di Franz, ed il
tedesco, che temeva volgarità nel comportamento della
donna, si ritrovarono a vivere quel momento magico che
solo i ragazzi vivono ai primi approcci al sesso.

CAPITOLO XXVI

Il violento scoppio li richiamò brutalmente alla realtà.
Lo spostamento d’aria provocato dall’esplosione aveva
spalancato la finestra della stanza e tutti vetri erano andati
in frantumi. Come un colpo di vento aveva scompigliato
i capelli a Benedetta e a Franz.

Entrambi rimasero per molti secondi immobili, forse
rifiutando di vivere una dimensione differente da quella
che erano riusciti a creare con la delicatezza, quasi la dolcezza,
dei pochi minuti che avevano passato insieme.

Poi Franz spostò bruscamente Benedetta e si precipitò
alla finestra, imprecando contro una scheggia di vetro
che gli era penetrata in un piede. Quando si affacciò
sulla piazza rimase in silenzio, rifiutando di accettare
quello che stava vedendo.

La piccola auto di servizio era stata scoperchiata dalla
violenta esplosione e lasciava vedere l’interno dell’abitacolo
che era, ad eccezione dei sedili anteriori, completamente
vuoto.

Sopra la portiera destra, che si era staccata dalla carrozzeria
ed era caduta a terra, Franz notò qualcosa ricoperto
da una stoffa grigio verde che comprese essere la
gamba di un uomo. Il resto del corpo, con la testa completamente
ricoperta di sangue, quasi staccata dal collo
ed in una posizione innaturale, era a qualche metro di
distanza da quello che era rimasto della vettura.

“BERND!” urlò Franz. “BERND!” ripeté con voce stravolta.
“NEIN! MEIN GOT! NEIN!”
Si girò verso Benedetta con occhi iniettati di sangue.
“Scheusliche hure du hast das attentat organisiert” –
Brutta puttana tu hai organizzato l’attentato – gridò e poi
“Brutta puttana, tu attentato, io te fucilare!”
Intanto si era infilato i pantaloni della divisa e una maglia
bianca. Con un piede che gli sanguinava uscì di
corsa dalla stanza.

“Achtung, achtung, kameraten, kommt, kommt, es ist
was fuerchterliches passiert!” – Attenzione, attenzione,
camerati, venite, è successo qualcosa di terribile! – urlava
intanto il tedesco correndo nel corridoio verso le scale.
Benedetta, inebetita, non riusciva a rendersi conto di cosa
potesse essere accaduto. Era rimasta ferma appoggiata al
muro dove Franz l’aveva spinta quando era corso alla
finestra. Lo sguardo stravolto del tedesco l’aveva terrorizzata
e nella sua mente continuava a rimuginare le uniche
parole che le erano rimaste impresse: “Io te fucilare!”

CAPITOLO XXVII

Lo spostamento d’aria creato dalla forte deflagrazione
lo investì quando ancora non aveva raggiunto l’androne
e per poco non lo fece cadere a terra. Continuò la
corsa senza voltarsi indietro.

Poco dopo udì i vetri delle finestre che, andati in frantumi,
cadevano sull’acciottolato e una voce, con l’odiato
accento tedesco, che urlava parole incomprensibili.

CAPITOLO XXVIII

Don Arlocchi aveva appena terminato la messa delle
sei. Cominciava a far freddo alla mattina presto, e
le vecchiette che intervenivano alla celebrazione mattutina
erano ormai solo una dozzina. Col passare delle settimane,
quando il freddo si sarebbe fatto pungente, il
numero non avrebbe superato le sei, sette. Le irriducibili,
le chiamava il buon prete.

Don Pompeo Cappelletti aveva pensato di abolire quella
messa nel periodo invernale, ma le vecchiette si erano
ribellate a questa ipotesi. Tanto avevano urlato contro il
Parroco che lui aveva dovuto rinunciare al suo proposito.
La pretesa era tanto più assurda perché le donne,
quando rientravano a casa verso le sette, passavano il
resto della mattina al freddo, senza qualcosa di concreto
da combinare se non rigovernare la casa. Erano, per lo
più, vedove e convivevano solo con la loro solitudine.

Don Arlocchi stava togliendosi i paramenti pregustando il
ritorno nella sua povera casa, dove avrebbe però trovato un
caffellatte ben caldo, con i biscotti che la sua vecchia perpetua
gli preparava freschi ogni due giorni. Era il momento
migliore di tutta la giornata e quel piccolo peccato di
gola si ripeteva tutte le mattine alle sette, perché lui, da
anni, era stato incaricato di officiare la prima messa.
Con fastidio il prete si accorse che qualcuno, senza far
rumore, si era introdotto in sagrestia. Miope com’era,
vedeva solo la sagoma di una persona intabarrata.

– Un uomo in chiesa a quest’ora? Chi può essere? – pensò.

“Vieni avanti, figliuolo. Chi sei?” disse per sollecitare
l’intruso vedendo, con la mente, la tazza di caffellatte che
iniziava a raffreddarsi sul tavolo della cucina.
L’uomo si avvicinò guardando dalla porta della sagrestia
la chiesa per sincerarsi che il Silestrini, che faceva da
sacrista ed aveva servito la messa, avesse spento le candele
e se ne fosse andato.

“Ah, ma sei il Russì!” esclamò il prete. “Quanto tempo è
passato dall’ultima volta che ti ho visto in chiesa?
Vediamo, vediamo… forse dal funerale della tua
mamma. Una decina di anni fa. Se sei venuto per denunciare
i tuoi innumerevoli peccati torna più tardi perché
ce ne vorrà di tempo e io adesso ho… un impegno” disse
e pensò – col mio caffellatte. –

“Non posso aspettare, padre” rispose il Russì con voce
triste e deferente. “Ho ammazzato un uomo”.
Don Arlocchi, nonostante la stazza e l’età, a quelle parole
fece un salto. La stola, che stava piegando, gli cadde a
terra e il Russì corse a raccoglierla.

“Tu hai cosa? Tu sei impazzito. Io non capisco, o mi
prendi in giro o… o… vade retro Satana!” e si fece più
volte il segno della croce. Ma dallo sguardo dell’uomo
capì che stava dicendo la verità.

Poi riprese: “Senti, qui non possiamo stare, neanche in
confessionale e poi, poi io non voglio sapere… soprattutto
se è un delitto politico. Io, io… come faccio ad entrarci e
poi, poi… non posso mica darti subito l’assoluzione. Io
devo consultare il diritto canonico, mica si fa così a dare
l’assoluzione come se avessi rubato un cucchiaio di mar-
mellata. Io non so, non mi è mai capitato. Devo chiedere
lumi. Cominciamo a dire un Pater noster insieme che
magari ci schiariamo le idee. In ginocchio, però. In ginocchio.
Oh Maria Vergine ora pro nobis! Ma guarda te se alla
mia età doveva capitarmi una cosa del genere, a me che
non mi è mai capitata. Preghiamo, dai preghiamo”.
E cominciò a recitare il Padre nostro. Quando finì la preghiera,
il prete era più confuso e inquieto di prima.

Prese il Russì per un braccio, lo condusse fuori della
sagrestia, chiuse la porta a doppia mandata e si diresse
verso casa.

Qui arrivato, fece accomodare l’uomo nel suo piccolo
studio e si diresse in cucina. In tre sorsi finì il caffellatte,
che era diventato tiepido, sgranocchiò un biscotto e
tornò nello studiolo.

“Dunque, vediamo un po’, torniamo da capo, come se ci
incontrassimo adesso. Allora tu arrivi da me e mi dici:
‘Mi voglio confessare’. Io allora mi metto la stola, ah già
la stola, la stola l’ho lasciata in sagrestia… beh Signore,
perdonaci per questa volta, tu che perdoni sempre”.
Questa frase gli era scappata, ma sperava che il penitente
non la prendesse buona per lui. Gesù avrebbe perdonato,
ma prima quell’assassino doveva dimostrare di
essersi pentito.

“Andiamo avanti senza stola, che speriamo vada bene lo
stesso. Mi fai fare certe cose tu che mai ho fatto. Allora
tu cominci a confessarti. Guarda che non è mica necessario
che tu mi dica dove, come e quando… che io da
queste cose voglio restare fuori. E neanche perché. Tanto
tu di giustificazioni non ne hai di sicuro!”
“E invece sì” intervenne il Russì. “Io non avevo nessuna
intenzione di uccidere. Io volevo solo dare una lezione ai
tedeschi facendo saltare in alto la loro vettura. Mica
potevo sapere che all’interno ci dormiva uno di loro”.
“Aspetta, aspetta. Tu vuoi dire che non sapevi di uccidere?
Attento non dire falsa testimonianza durante una
confessione, che la cosa diventa ancora più grave! Tu devi
guardare dentro la tua coscienza e devi dire assolutamente
la verità. E poi sei pentito di quello che hai fatto?
Pensaci bene prima di rispondere!”

“Se è per quello sono più incazzato che pentito. Certo che
mi spiace che quel ragazzo sia finito a pezzi, ma io mica
volevo farlo. Come si fa a essere pentiti di una cosa che
non si voleva fare e che è capitata per caso? Forse sono
pentito di aver fatto saltare l’automobile dei tedeschi.
Questo sì lo volevo fare, l’ho fatto e me ne dispiace”.

Al prete si ingarbugliavano ancora di più le idee in testa.
In effetti il ragionamento del Russì non faceva una piega.
Ma non si può liquidare così l’uccisione di una persona.
Però lui non sapeva quali argomenti trattare, come si
doveva comportare da sacerdote: cosa dire, in definitiva
al penitente.

Improvvisamente si udì un gran bussare alla porta d’ingresso.
– Ma chi può essere a quest’ora che viene a casa mia?
Mica saranno i tedeschi che hanno seguito il Russì?-
pensò. – Ma tutte oggi devono capitare. Mi fossi svegliato
malato grave ed impossibilitato a dir messa, sarebbe
stato molto meglio. –

Si alzò ed andò ad aprire. Al di là della porta trovò il farmacista.
“Buongiorno dottore” lo salutò. “Come mai da queste
parti ed a quest’ora?” domandò.

“Ho una cosa urgente da dirle, anzi da confessarle”
rispose il Temperini tentando di farsi strada e di entrare
nella casa.

“Adesso non posso, sono occupato. Non posso proprio”
rispose il prete cercando di difendersi dall’invadenza.
“Ma io ho urgenza di parlarle. Di confessarmi, anche se
non lo faccio da anni. Ma questa volta è grave. Ho aiutato
ad uccidere un uomo”.

A don Arlocchi mancarono improvvisamente le forze e,
con un sospiro che sembrava un rantolo, si lasciò cadere
pesantemente sulla seggiola che, provvidenzialmente,
aveva alle spalle. Dalla porta dello studiolo si affacciò il
Russì per vedere chi era arrivato. Trovatosi davanti il
Temperini fece un passo indietro, quasi per nascondersi.
Si sentiva in colpa per averlo coinvolto, anche se incolpevolmente,
nell’uccisione del tedesco.

Il farmacista che aveva visto con grandissima meraviglia
il Russì, trascurò di portare soccorso al prete ed entrò
decisamente nello studio. “Che ci fai qui?” quasi urlò al
Russì. “Tu sei matto, matto. Sei sulla lista nera, lo sai.
Uno dei primi che vengono a cercare sei tu. Scappa perdio,
scappa!”

Don Arlocchi, che si era un po’ ripreso anche se non
riusciva ad entrare in possesso di tutte le proprie facoltà
mentali, intervenne anche lui alzando la voce verso il farmacista.
“Qui non si bestemmia, non si deve mai bestemmiare,
ma qui è casa di Dio. Farlo è ancora più grave. Diamoci
tutti una calmata. Voi sedetevi e vediamo cosa fare.”
Si sedette alla sua scrivania, appoggiò il gomito al tavolo e
con due dita cominciò a massaggiarsi gli occhi chiusi.

Quasi che privandosi della vista potessero anche scomparire
i problemi enormi che lo assillavano. Recitò mentalmente
una breve preghiera chiedendo aiuto a Dio perché gli
facesse comprendere chiaramente quanto stava succedendo
e gli desse la forza e la saggezza per gestire la situazione.
“Raccontatemi tutto quello che sapete. Tutto! Devo
sapere tutto! In effetti è una confessione un po’ fuori del
normale, ma Dio capirà: questa è una situazione tutta
fuori del normale.”

Poi si rivolse al Russì.

“Avanti, parla tu per primo, che mi sembra sia tu quello
che ha le maggiori responsabilità.”

“Cosa è successo? Quello che è successo non ci voleva,
non doveva succedere ed invece è successo” rispose l’interpellato
al quale oltre che le idee si erano confuse anche
le parole.

“Quello là cosa ci è andato a fare alle nove di sera nella
macchina. Cosa ne sapevo io che lui era lì? Mica ce l’ho
mandato, ed adesso ce l’ho io la colpa!”

“Ascolta, figliuolo” lo interruppe il buon prete, “lascia
stare tutti commenti e spiegami bene quello che è successo.
I commenti, se mai, li faremo dopo. Comincia da
capo e spiegati bene!”

“Io e il farmacista, con altri, dei quali non farò il nome
neppure se mi torturano, avevamo deciso di dare una
lezione, quasi uno scherzo, a quei crucchi di tedeschi.
Volevamo fargli saltare in aria quella stramaledetta macchina
e chi s’è visto s’è visto. Abbiamo preparato tutto per
bene. Io ci avevo l’esplosivo, me l’ero procurato, l’avevo
messo sotto la macchina, acceso la miccia e poi bum:
tutto era saltato in aria ed io ero scappato a nascondermi.

E invece quel cretino di un crucco – qui don Arlocchi,
sentendo nominare il morto, si fece il segno della croce –
era andato, a far cosa? A passare la serata in macchina. Le
pare normale? Come si faceva a sapere una cosa del genere?
E adesso io sono un assassino e chissà cosa combineranno
i tedeschi per vendicarsi.”

“Mi sa che ha ragione il dottore. Tu è meglio che te ne
vada” riprese il prete che non trovava nessun’altra soluzione
possibile. Ormai il guaio era fatto e non si poteva
certo andare a dire ai tedeschi che era stato un errore.
“Vai in montagna. Lascia detto al tuo socio qui presente
dove poterti rintracciare se c’è bisogno di te. Io non lo
voglio sapere. Non so ancora cosa fare, ma se mi viene in
mente qualche soluzione voglio essere libero di agire senza
correre il rischio di tradirti. E lei, Temperini, torni alla sua
vita quotidiana come se quanto successo non la riguardasse.
Per adesso l’unica cosa da fare è questa. Poi vedremo. Il
buon Dio non mi lascerà solo, ne sono certo, e mi aiuterà
a trovare qualche soluzione. E adesso sparite tutti e due.
Tu Russì aspetta un attimo che ti do qualcosa”. Si alzò,
andò in cucina e ritornò con un salame che gli avevano
appena regalato e che teneva appeso nella fredda cucina in
attesa di una occasione speciale per affettarlo.

“Tienilo” disse porgendolo al Russì. “Mettilo insieme
alle altre cose che riuscirai a trovare. Non puoi mica partire
senza nulla da mangiare, soprattutto in questa stagione.
Vi farò sapere.” Poi li accompagnò alla porta, rimanendo
fermo qualche istante a guardare con preoccupazione
i due che si allontanavano e con nostalgia il salame
che si allontanava con loro.

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