L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 7-8
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CAPITOLO VII
Le lezioni erano riprese nelle piccole aule della scuola
di Breno, in ciascuna si accalcavano oltre trenta scolari.
Alla signora maestra Lucia quell’anno toccava insegnare
alla quarta classe. Erano quasi tutti maschi: le femmine
avevano abbandonato la scuola in gran numero alla
fine del primo ciclo. Gli scolari appartenevano a tutte le
classi sociali: figli di contadini, di operai della Fonderia
Tassara – l’unica grande fabbrica del paese – di qualche
commerciante e di un paio di professionisti. L’unico
nuovo allievo, Ernesto, veniva da Brescia: era il figlio del
Comandante del Gruppo dei Reali Carabinieri della città.
La sua famiglia, tranne il padre che aveva dovuto
restare al suo posto di comando, si era trasferita a Breno
per sfuggire ai bombardamenti, accolta nella grande casa
del nonno materno, personaggio molto importante e
conosciuto in tutta la Valle Camonica essendo un Generale
degli Alpini in pensione.
Ernesto era un bambino molto più alto della media, magro
magro. Si sentiva spaesato tra i nuovi compagni che
comunicavano tra loro quasi sempre in un dialetto per
lui incomprensibile. Quando poi si seppe che era nato a
Bengasi, in Libia, divenne quasi un’attrattiva per tutti i
bambini, guardato con rispetto ma anche con sospetto.
Tutti pensavano che non fosse uno di loro. Anche la
maestra aveva una sorta di riverenza nei suoi confronti:
sia perché papà e nonno erano delle personalità importanti,
sia perché la famiglia era culturalmente avanzata
ed avrebbe potuto valutare con senso critico il suo operato.
D’altra parte insegnare in una classe nella quale vi
erano figli di persone assolutamente analfabete e figli di
famiglie acculturate non era sicuramente facile. Bisognava
avere tatto, rispetto e pazienza con i primi rimanendo
vigili affinché gli altri non si annoiassero ripetendo più
volte cose, per loro, ovvie. E poi una buona maestra
doveva anche fare in modo che gli scolari socializzassero
tra loro, eliminando le differenze tra gli strati sociali. Bisogna
dire che Lucia in tutto questo metteva un lodevole
impegno avendo vissuto sulla propria pelle, lei, figlia
di un netturbino, grandi disagi.
Quando Ernesto cominciò a stringere le prime amicizie
e a frequentare i nuovi compagni anche fuori dalla scuola,
si accorse di quante cose non sapesse della vita. Uno
degli argomenti più trattati era il sesso. I figli dei contadini
sapevano tutto sugli accoppiamenti degli animali,
sia bovini che cani o gatti, ma anche quello che succedeva
molto spesso nel letto dei loro genitori in quanto, data
la ristrettezza delle loro abitazioni, a volte dormivano
tutti nella stessa camera.
Lui non capiva molto bene l’importanza di questi argomenti
in quanto non si era posto mai il problema di
sapere se fosse stato concepito e tanto meno come. Ma
la cosa fece violentemente irruzione nei suoi pensieri
quando, un sabato pomeriggio, recatosi con tutti i ragazzi
del paese che avevano già ricevuto la prima comunione,
a confessarsi, il vice Parroco, don Arlocchi, gli
chiese se “si era toccato”.
Lui ci pensò su bene, senza capire il senso della domanda.
Sapendo che non poteva mentire e che sicuramente
si era toccato lavandosi le mani, la faccia, le gambe,
rispose di sì. Il vecchio prete gli fece una predica concitata
della quale lui non capì il significato, tranne che
queste cose non si fanno e gli comminò, come penitenza,
sette Pater, Ave e Gloria.
Ernesto uscì dalla chiesa che quasi si sentiva male. Come
avrebbe potuto continuare a vivere? Fu il Mario Bertolasi
a dargli il primo aiuto. Vedendolo così di cattivo umore
e ben avendo sperimentato l’Arlocchi, capì subito che
qualcosa era successo in confessionale. Gli si avvicinò e,
senza preamboli, gli chiese:
“T’ha dumandà se te set tucà l’usel? L’ha vulu anche
sapee’ come e se te ghel faseved vide?”
Il povero Arlocchi, che nonostante il suo caratteraccio,
era in effetti una gran brava persona, era tacciato di tendenza
alla pedofilia dagli stessi ragazzi che lo frequentavano
e che lui, soprattutto in confessionale, tendeva ad
abbracciare ma per puro affetto. Non si era sentito dire
che avesse mai avuto altre confidenze con i bambini.
L’unica cosa strana era che si infilava, sempre con qualche
scusa, negli spogliatoi dell’oratorio quando, dopo
qualche partita di calcio o qualche altro gioco prolungato
chi, avendo a disposizione vestiti di ricambio – ed
erano in pochi – li sostituiva con quelli sporchi di sudore.
Di docce, a quei tempi, non si parlava neppure.
Ernesto rimase alquanto imbarazzato. Ammettere di non
aver capito cosa significava la domanda del prete valeva
anche come ammissione di non sapere niente del proprio
corpo e dei suoi stimoli. I pensieri gli frullavano in
testa sconclusionatamente e lui non riusciva a dar loro
un ordine logico né una priorità. Guardò con qualche
riconoscenza il compagno, ma non aveva coraggio di
raccogliere il suo aiuto e si allontanò senza salutarlo.
A casa disse alla mamma di avere mal di stomaco e all’ora
di cena preferì andare a letto senza aver mangiato. In
effetti voleva star da solo e ripensare a tutti gli eventi
della giornata mettendo un po’ d’ordine nei suoi pensieri.
Ma non sapendo da dove cominciare ben presto si
distrasse e si addormentò.
La mattina dopo a scuola, durante l’intervallo, mentre
mangiucchiava due fichi secchi ed una noce – la merenda
tanto invidiata da alcuni compagni che non avevano
nulla – gli si avvicinò il Bertolasi che senza altri preamboli
gli chiese:
“Ma tu una donna nuda l’hai mai vista?”
“No” fu la secca risposta.
– Ma che interesse può avere vedere una donna nuda? –
pensò Ernesto che però rimase assai turbato.
Per tutto il resto della mattinata non prestò alcuna attenzione
alle lezioni perché la domanda del compagno continuava
a rigirargli in testa. All’uscita della scuola il
Bertolasi lo raggiunse mentre svelto se ne stava tornando
a casa e gli disse:
“Se vuoi il Sergino ti fa vedere sua mamma” e senza
attendere risposta si unì a due amici mettendosi a giocare
a spallate.
Dopo pranzo, finiti i compiti, Ernesto scese in piazza,
proprio sotto casa, dove tanti bambini si ritrovavano per
giocare a pallone, con una povera palla fatta di stracci, o
a “chi manda in gozza cagna”.
Questo gioco molto in voga in paese si praticava con
delle palline di terracotta. Si faceva una piccola buca, a
volte togliendo un sasso dall’acciottolato. Da un paio di
metri dalla buca si lanciava la propria pallina e chi riusciva
a sistemarla più vicino alla buca stessa giocava per
primo. Doveva colpire con la sua pallina quella dell’avversario
o degli avversari e ad ogni impatto contava
“tre!”, “sei!”, “nove”, sino a “18”. Si doveva quindi tirare
in buca la pallina. Chi riusciva faceva – non si capisce
perché, se non per la rima – “pancotto”. Se si sbagliava un
colpo toccava all’avversario giocare. Chi riusciva a fare
“pancotto” vinceva le palline degli avversari.
Le biglie erano molto fragili e, essendo probabilmente
fatte a mano, di forma molto irregolare. L’urto contro i
sassi dell’acciottolato le scheggiava o, addirittura, le rompeva.
Ovviamente chi rimaneva senza palline non poteva
giocare e quindi cercava di scambiare qualsiasi cosa
per procurarsele.
Il Sergino, che non era un gran giocatore e di palline ne
perdeva molte, aveva inventato uno scambio semplice e
proficuo. Tutti i sabati pomeriggio sua madre, una gran
bella signora con ampie curve, si lavava nel bagno di casa
che era dotato di una delle poche vasche del paese. I battenti
della porta del bagno erano sovrastati da una finestrella
di vetro, attraverso la quale si poteva vedere tutto quello
che avveniva all’interno. Il Sergino trasportava fuori della
porta una leggera scala di legno e, dietro pagamento di un
determinato numero di palline, lasciava salire sulla scala,
nel massimo silenzio, il pagatore a godersi lo spettacolo.
Quel giorno non gliene andava bene una: perse quattro
partite di seguito e tre palline, nell’urto contro i sassi, si
ruppero miseramente. Era arrabbiatissimo ed invidioso
dell’Ernesto che, si vedeva, aveva una tasca piena di palline
e continuava ad aumentarne il numero vincendo
una partita dietro l’altra.
“Domani è sabato” disse il Sergino ad alta voce perché
tutti i bambini lo sentissero. Tutti smisero di giocare e
scese un gran silenzio. Ciascuno mentalmente fece il
conto di quante palline potesse offrire per poter fare da
spettatore. Il Bertolasi parlò per primo e disse:
“E’ ora che ci venga l’Ernesto. Io penso che ti possa dare
venti palline!”
Un “ohh” meravigliato uscì dalle bocche dei presenti.
Venti palline erano una piccola fortuna! Il Sergino guardò
l’Ernesto che era rimasto frastornato – ma ormai il
destino aveva già deciso per lui – con estremo interesse e
poi allungò verso di lui le due mani avvicinate a coppa.
Contò le venti palline e le diede al compagno di giochi.
“Alle cinque” disse il Sergino e trionfante si allontanò
dal gruppo.
Alle cinque meno un quarto l’Ernesto si presentò a casa
dell’amico. Provava una strana sensazione: gli pareva di
non essere presente totalmente con la mente e di navigare
su un mare non completamente calmo che gli dava, insieme
a una lieve sensazione di vertigine, un po’ di nausea.
Non sapeva esattamente cosa andasse a vedere né quanto
gli interessasse, ma sapeva che DOVEVA andarci.
Suonò alla porta che si aprì immediatamente, come se
Sergino fosse dietro la stessa in attesa. Imboccarono
un lungo corridoio ed entrarono in una stanza mettendosi
a giocare con delle figurine, in attesa di veder
passare la mamma diretta verso il bagno che si trova-
vava in fondo al corridoio.
Non dovettero aspettare molto. Con l’immancabile sigaretta
tra le labbra, fasciata in una vestaglia rosa, la donna
passò davanti alla porta senza interessarsi né del figlio né
dell’ospite. Sembrava leggermente in trance, forse appena
risvegliatasi da un sonnellino pomeridiano.
Entrata nel bagno la porta fu chiusa a chiave. Sergino
corse a prendere una leggera scala di legno che appoggiò
sulla parete a lato della porta. Chiamò a gesti l’Ernesto,
si pose il dito indice sulle labbra a raccomandargli di fare
silenzio e, dopo avergli indicato di salire sulla scala, se ne
andò correndo senza far rumore.
Ernesto salì lentamente, quasi controvoglia, sino alla finestrella.
Gli era venuta una violenta paura di andare a
vedere cose “proibite”, ma soprattutto di essere scoperto.
In un attimo vide la madre di Sergino raccontare alla sua
come e dove l’aveva sorpreso. Sua mamma che, scoppiata
in lacrime, lo guardava con dolore e disprezzo con quei
suoi occhi verdi che già di solito, difficilmente, esprimevano
affetto. Ma si fece coraggio e guardò: la donna stava
inginocchiata davanti allo scaldabagno. Una stufa alta circa
un metro e mezzo, di forma cilindrica, ricoperta da un
lungo tubo di rame che saliva a serpentina verso l’alto e
dentro al quale, evidentemente, scorreva l’acqua da scaldare.
La donna stava accendendo il fuoco con un pezzo
di giornale e qualche ramoscello secco: aggiunse tre o
quattro pezzi di legna e richiuse lo sportello. Si rialzò ed
andò davanti allo specchio. Diede con le dita qualche colpetto
alla capigliatura quasi a volerla aggiustare e, volgendo
con malizia la testa un poco verso destra e poi verso
sinistra, rimase a contemplarsi con sulle labbra un legge-
ro sorriso di soddisfazione. E aveva ragione, pensò Ernesto:
aveva veramente un viso ben formato, occhi chiari e
vivissimi, un sorriso smagliante nonostante le tante sigarette
che fumava da anni.
Poi si tolse la vestaglia, rimanendo nuda, dando le spalle
alla porta. Ernesto, preso alla sprovvista, per poco non
ruzzolò dalla scala ma, ripresosi, scese con lo sguardo
lungo il corpo esposto totalmente alla sua vista, fermandosi
a rimirare le chiappe, un po’ grosse, ma ben tornite. La
sua attenzione fu immediatamente attratta da qualcosa di
più interessante: i seni riflessi dallo specchio. Lei appoggiò
le palme delle mani sotto di loro quasi a soppesarli, li spinse
verso l’alto e quindi uno contro l’altro. Intanto aveva
cominciato a canticchiare con quella voce, leggermente
rauca, che tanto arrapava gli uomini. Un leggero sorriso di
soddisfazione confermò che anche questa parte del corpo
riceveva l’approvazione della sua proprietaria.
Infine quel corpo nudo si voltò ed Ernesto rimase a bocca
aperta quando vide una selva di peli biondi e ricci, a
forma di triangolo, che scendevano da pochi centimetri
sotto l’ombelico sino all’inizio delle cosce. E sotto o sopra
i peli nulla, nulla di lontanamente paragonabile a
quello che aveva lui in quella posizione. Anzi, PROPRIO
ASSOLUTAMENTE NULLA!
La donna fece due passi avanti e si mise a sedere sul water.
Poi si udì chiaramente il rumore del liquido che usciva
dal suo corpo. Aveva fatto pipì. Ma da dove era uscita?
Non gli rimase che pensare che le donne fossero come
le mucche, che aveva visto tante volte fare i loro bisogni,
liquidi o solidi che fossero, usando sempre lo stesso bu-
co. Ma ci avrebbe ripensato poi, adesso era troppo occupato
a guardare quel corpo che gli veniva offerto, veramente
in tutta la sua nudità.
Lei lasciò il water, lo richiuse con la tavoletta e si avvicinò
allo specchio prendendo dalla mensola un paio di pinzette.
Iniziò a togliersi qualche pelo dalle cosce e poi scese
sotto le ginocchia. E poi più in basso. Ma per comodità
si risedette sul water, alzò la gamba destra e appoggiò il
piede sulla parte anteriore della tavoletta. E fu allora che
Ernesto la vide: una ferita, aperta, rosea che iniziava da
sotto i peli e finiva giù quasi all’attaccatura delle natiche.
Questa volta non rimandò il proponimento di cercare di
capire in un secondo momento. La cosa lo intrufolava
troppo, doveva vedere bene e, se possibile, capire.
Purtroppo la depilazione della parte inferiore della gamba
durò poco tempo, ma a lui il tempo sembrò ancora
più breve.
Iniziò poi la depilazione della gamba sinistra ma, quando
fu raggiunta la posizione che Ernesto tanto attendeva,
dalla sua angolazione non si riusciva che a vedere la parte
laterale della coscia sinistra e una chiappa. Un leggero
sudore, lui che non sudava mai, cominciò a bagnargli le
spalle e uno strano formicolio si fece sentire nella zona del
basso ventre. Ma lui non poteva ancora capire da cosa,
effettivamente, queste due sensazioni derivassero.
L’acqua, finalmente calda, aveva cominciato a scendere
nella vasca e quel corpo nudo, bagnato ed insaponato
pareva ancora più bello. La donna si massaggiava tutto il
corpo insaponandosi e traendone un evidente piacere.
Alla fine uscì dalla vasca e, aiutandosi con un telo azzurro
che ben si addiceva al colore dei suoi capelli, a quello
dei peli e della pelle, cominciò ad asciugarsi con lenta
lascivia. Prima il seno, le spalle, poi il ventre, i peli del
pube e poi… e poi si dedicò alla ferita che per un momento
apparve ad Ernesto, leggermente aperta, rosea.
Come un fiore di primavera! A questo punto non ce la
fece più, scese dalla scaletta e fuggì via.
CAPITOLO VIII
Un gigante dagli occhi verdi e dai capelli rossi, una
leggenda tra i pastori dell’alta valle che lo consideravano
il loro re. Uno che non sbagliava mai l’accesso a
un pascolo, che non aveva mai perso una bestia in vita
sua, che era capace di caricarsi in spalla un vitello, nato
prematuramente, e portarlo, camminando ore e ore, alla
stalla a valle perché ricevesse le necessarie cure.
Era il padrone delle montagne che dividevano la Val
Camonica dalla Val di Scalve. A lui si rivolgevano i grossi
allevatori per affidare le vacche da portare agli alpeggi,
sicuri per la loro incolumità e perché fossero fatti onesti
conti sul formaggio prodotto dal latte dei loro capi. Ma
anche escursionisti che volevano raggiungere le alte vette
che si affacciavano sulla valle, senza correre grossi rischi.
Sapeva in anticipo di ore se il tempo sarebbe cambiato,
conosceva le pareti ove era possibile raccogliere le stelle
alpine, dove aveva fatto il nido il gallo cedrone o il forcello,
dove cacciare, d’inverno, le lepri dal mantello bianco,
le grasse marmotte o quei pochi daini che erano
rimasti. Sapeva cucinare i peluc raccogliendoli al momento
della giusta maturazione, annegandoli nel burro
di baita che ha quel poco di profumo di affumicato che
esalta il palato. Peluc e polenta: un piatto da grande
intenditore. La mascherpa, pur nella sua povertà, fatta da
lui aveva quel qualcosa in più da essere richiesta dalle ric-
che famiglie del bresciano.
Uno di quei personaggi dei quali, come si dice, si è perso
lo stampo. Il suo corpo emanava uno strano odore, non
di sporco, ché ci teneva moltissimo alla pulizia personale,
ma quasi di selvatico, un odore che piaceva alle donne
(e molte, anche tra le così dette della buona società, se ne
dovevano essere impregnate in esaltanti incontri amorosi)
ma che gli permetteva anche di poter avvicinare gli
animali che cacciava a distanze molto inferiori a quelle
che erano consentite agli altri cacciatori.
La sua pazienza negli appostamenti era proverbiale. Riusciva
a stare ore fermo alla posta in attesa che la preda,
ormai sicura di non essere braccata, gli arrivasse a portata
di tiro, un solo tiro, che quasi sempre risultava mortale.
Vederlo tirare al gallo cedrone in volo, quando scendeva
rasente le cime degli alberi dalle vette a 100 chilometri
all’ora, era uno spettacolo che, purtroppo, era concesso
a pochi. Lui e il suo bracco, di nome Diana, erano
veramente leggendari.
Aveva più di sessant’anni ma ne dimostrava venti di meno
con quel fisico possente, ancora elastico nel camminare
e nell’arrampicarsi.
Nemico da sempre dei tedeschi, o comunque di tutti
quelli che parlavano quella lingua dura adatta solo al
comando, che gli avevano ucciso il fratello, nei primi
giorni di battaglia della guerra ’15-’18.
Aveva odiato Mussolini da quando si era alleato coi crucchi
per combattere le altre nazioni europee. L’arrivo dei
militari, alleati o occupanti a seconda dei punti di vista,
in paese lo aveva reso ancora più restio a venirci se non
quando aveva necessità di qualcosa di urgente. E quel
giorno ci stava andando per rifornirsi di sale, tabacco e
fiammiferi. Sarebbe stata una visita breve dal solo tabaccaio,
se non avesse fatto due incontri che gli cambiarono
la vita per molto tempo.
Appena finito il viottolo che portava al Cerreto del mat
Ruscun e arrivato in piazza S. Agostino, vide venirgli incontro,
uscito precipitosamente dalla farmacia, il dott.
Temperini. I due, vecchi compagni di escursioni, grandi
bevute e battute di caccia, neppure si salutarono. Il farmacista,
quando gli arrivò a pochi metri, gli sussurrò:
“Andiamo a bere un bicchiere che ho da parlarti”.
Entrarono nel bar, vuoto a quell’ora della mattina, si
diressero al bancone e, fattosi dare un bicchiere di vino,
si accomodarono a un tavolo d’angolo. Il farmacista entrò
subito in argomento:
“Russì, così non si può andare avanti, siamo diventati
tutti delle signorine. Capisci, sei tedeschi tengono in
scacco tutto un paese, tutta una valle… e noi non facciamo
niente. Cacciamo giù tutto come se fosse una cosa
naturale. A quelli dobbiamo dare una lezione”.
Il Russì lo guardava serio, continuando a muovere lo
sguardo a destra ed a sinistra per controllare che nessuno
li ascoltasse, ma era attento e continuava ad annuire alle
parole del Temperini.
“Con quella maledetta macchina corrono su e giù per la
valle tutto il giorno e ci tengono tutti sotto controllo; non
si può uscire dal paese perché quelli della Muti gli danno
una mano e all’improvviso te li trovi davanti in qualsiasi
viottolo che va verso i monti. E se ti fermano, vogliono i
documenti… e perché si trova qui? e da dove viene? e cosa
c’è nella borsa? e di qua e di là. Russì, son tre mesi che
non scopo, non riesco più ad andare a trovare le mie amiche!
Ma non è per quello, è che se ci caghiamo tutti
addosso per noi è finita. Nel ’18 avevamo conquistato un
po’ di dignità, ma ora l’è finita sotto i piedi!”
Il Russì stette in silenzio un paio di minuti e poi disse,
sottovoce ma risoluto:
“Gli facciamo saltare in aria la macchina!”
Il farmacista sgranò gli occhi, lo guardò fisso e poi, menandogli
una gran botta su una coscia, si mise a ridere e
a voce altissima gli disse:
“Cristo, sei sempre il migliore”, pensando scherzasse.
Poi lo guardò meglio in faccia e dalla sua espressione,
così dura, capì che la decisione era seria, forse maturata
da tempo come se tutto fosse già programmato, quasi
già avvenuto.
“Fermati al Fumo che ci mangiamo qualcosa insieme.
Andiamo nella tana del lupo così nessuno dubiterà di
niente. Ci vediamo a mezzogiorno” disse il farmacista
diventato a sua volta teso e pensieroso.
Russì fece un cenno di assenso, si alzò e, mentre il farmacista
si avvicinava al banco per farsi riempire nuovamente
il bicchiere, uscì dal locale. I discorsi del farmacista gli
avevano risvegliato pensieri che gli giravano nel cervello
da tanto tempo. Pensieri che non aveva mai elaborato
ma che erano sicuramente dettati da un profondo stato
di disagio e che ora lo stimolavano, fortemente, a fare
qualche cosa. Adesso aveva fretta, già che era in paese,
era meglio se riusciva ad incontrare le persone giuste per
poter cominciare a programmare l’attentato. Come sempre
quando avvistava una preda si lasciava prendere dalla
smania di iniziare l’inseguimento – in questo caso la pre-
parazione – per raggiungere lo scopo. Mentre parlava col
farmacista gli era venuto in mente che un aiuto importante
poteva venire dal Martin Bascià, che lui conosceva
come un fratello e del quale si fidava completamente.