L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 5-6
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CAPITOLO V
Il bar Monte Grappa era il luogo di ritrovo di tutti gli
sfaccendati del paese, dei negozianti che avevano chi
potesse sostituirli in negozio o dei professionisti che
potevano gestire il loro tempo a piacimento. Vigevano
due regole ferree: era vietato parlare di politica e non si
poteva giocare a carte a soldi. I pettegolezzi e le abbondanti
libagioni erano quindi gli unici sfoghi dei clienti.
Il proprietario, detto Burtulì squarta fasöö, per la sua tirchieria
e per la precisione che metteva in tutto ciò che
faceva, per mantenersi la clientela riusciva sempre a
inventarsi qualcosa. In quel periodo aveva messo a punto
tornei di briscola. Con pazienza certosina predisponeva
15-20 mazzi di carte con identica sequela in modo che
tutti i partecipanti al torneo avessero le stesse chances.
Anche se non si poteva giocare a soldi, veniva fissata una
cifra di iscrizione e al termine del torneo venivano premiate
le prime tre coppie. A volte con una dozzina di
uova, a volte con un salame o una piccola forma di formaggio.
Cose preziose in periodo di autarchia dove combinare
il pranzo con la cena non era per nulla facile. La
cosa faceva impazzire gli accaniti giocatori che si iscrivevano
ai tornei, versando le iscrizioni anche dieci giorni
prima dell’inizio pur di non perderle. I risultati poi, tra
buone bevute, si discutevano a lungo con prese in giro
per i perdenti e promesse di rivincita.
Il Temperini era un grande affabulatore ed era richiestissimo
dai frequentatori del bar per le storie che sapeva
inventare, soprattutto se erano particolarmente, come si
diceva allora, sboccate. E il farmacista condiva sempre
questi racconti con fatti veri che si riferivano, non esplicitamente
ma in modo alquanto comprensibile, a qualcuno
del paese che aveva qualche problema fisico nel
senso sessuale e che si era rivolto a lui per qualche cura:
alla faccia del segreto professionale. Altre volte iniziava
barzellette che centellinava magari in diverse visite al bar,
rendendo spasmodica l’attesa per il finale. Ai nuovi
venuti non risparmiava mai la storiella dell’omino verde
che lui recitava con gran bravura.
Si trattava di un problema di un suo cliente che lui aveva
contribuito a curare. Il poveretto aveva avuto una strana
situazione di incontinenza. Appena addormentato sognava
che un omino verde gli si posava sulla parte inferiore
della pancia ed incominciava a gridare “Piscia! Piscia!” e
lui alla mattina si svegliava con il pigiama ed il letto intrisi
della sua urina. Il Temperini, interpellato, aveva preparato
un intruglio di erbe calmanti che avrebbero reso il
sonno più tranquillo e risolto il problema. Niente affatto.
Quello aveva continuato a sognare l’omino urlante e a
svegliarsi alla mattina bagnato sino al collo. Lui gli aveva
aumentato la dose ma, non ottenendo risultati, aveva sentenziato:
“A mali estremi, estremi rimedi!”
Gli aveva detto: “Se noi riusciamo a interrompere, almeno
per una volta, che l’omino l’abbia vinta vedrai che
tutto finirà. Però, secondo me, bisogna intervenire fisicamente.
Sarà un po’ doloroso ma sono certo ce la farai!”
Aveva allora spiegato al cliente che alla sera, prima di
andare a letto, avrebbe dovuto prendere il solito sedativo
e poi un pezzo di corda con il quale legare strettamente
il pene, e di conseguenza il canale urinario, onde rendere
impossibile il passaggio del liquido. L’aveva quindi
congedato regalandogli un potente antidolorifico e dandogli
appuntamento per la mattina successiva. Quando
si ritrovarono il cliente gli disse:
“Dottore, io ho fatto come mi ha detto lei. Ho preso il
calmante, le pillole contro il dolore e poi mi sono legato
l’uccello il più strettamente possibile. Un dolore bestia,
dottore. Un dolore bestia! Però sono riuscito ad addormentarmi
e subito è venuto quel disgraziato. Si è messo a
urlare ‘Piscia! piscia!’ e io l’ho lasciato urlare. Poi mi sono
toccato: era tutto asciutto, non usciva veramente niente!
Lui continuava a urlare ed io a rimanere asciutto”.
“Allora ce l’abbiamo fatta” gridò il dottore tutto contento.
“Mi lasci finire, dottore. Lui urlava ed allora io gli ho
detto: ‘Guarda che non posso pisciare perché me lo sono
legato. Guarda!’ Lui si è sporto a guardare verso il basso
e, visto il mio uccello tutto infiocchettato, si è arrabbiato
come una bestia. Prima di andarsene, mi ha urlato
‘Ma va’ a cagare!’. Dottore, io questa mattina mi sono
svegliato pieno di merda sino al collo!”
CAPITOLO VI
Quell’anno la famiglia di Ernesto non aveva trascorso
l’abituale vacanza al mare.
Tutti erano preoccupati per le vicende politiche e della
guerra in corso che non lasciavano spazi a programmi
festaioli. Però alla fine di agosto suo papà era riuscito a
trovare qualche giorno di riposo e fu così che, in fretta e
furia, la famiglia fece i bagagli per dieci giorni di vacanze
in alta Val Camonica, a Pezzo, un paesino nei pressi
del Passo del Tonale. Poco più di quattro case con un
alberghetto dal nome pretenzioso “Alte vette” ma che era
poco più di una locanda. Le camere avevano un arredamento
approssimativo, ma la cucina era buona e il paesaggio
stupendo: fitti boschi, ruscelli e pascoli pieni di
vacche che attendevano l’inizio dell’autunno per scendere
a valle lasciando gli alpeggi.
Una mattina, all’alba, una vettura di servizio era arrivata
in albergo a prendere suo papà per portarlo al Comando
dei Carabinieri di Brescia. Era successo qualcosa di veramente
grave, che però Ernesto non comprendeva completamente:
il piccolo, borioso e pauroso Re d’Italia e
Imperatore di Etiopia, preso dalla paura per l’imminente
invasione dell’Italia da parte delle truppe americane e
inglesi, aveva firmato l’armistizio con i nemici abbandonando
gli alleati tedeschi. Poi, il Re Cialtrone, tremante
ma abbastanza lucido da portare con sé tutti i beni pos-
sibili, compresa la sua collezione di monete dal valore
inestimabile, era fuggito per mare, a bordo di un incrociatore,
lasciando nei guai più assoluti i suoi sudditi, ma
soprattutto i soldati che gli avevano giurato fedeltà. I
generali non sapevano come comportarsi e i soldati, che
si sentivano abbandonati, avevano in massa gettato le
divise dandosi alla macchia.
Intanto i tedeschi, traditi dagli italiani, con le truppe
inviate in Italia dopo il 25 luglio di quell’anno – quando
Mussolini era stato arrestato per ordine del Re e l’alleanza
con l’Italia stava traballando – avevano occupato,
con la perfetta organizzazione che possedevano, tutti i
punti chiave, compreso il Comando della Legione
Carabinieri di Brescia.
Molti dei soldati che avevano lasciato l’esercito avevano
cercato di rientrare ai loro paesi di origine. Altri, non
sapendo dove andare né a quale santo votarsi, avevano
lasciato le città, dove potevano essere facilmente riconosciuti
a causa della giovane età, prendendo la via delle
valli e delle montagne. In Val Camonica ne erano arrivati
parecchi. Erano stati accolti con simpatia e con amore
dai contadini e dai pastori che riconoscevano in loro i
figli che si trovavano al fronte o che avevano perso nel
corso della guerra.
Ben presto i tedeschi emanarono una legge marziale intimando
ai fuggiaschi di rientrare nei ranghi, pena la
morte. Pochi risposero all’invito, preferendo rischiare la
pelle in attesa dell’arrivo dei liberatori anglo-americani
piuttosto che combattere agli ordini di chi ritenevano ora
fosse il vero nemico. Infatti si cominciava a diffondere la
voce che i tedeschi non avevano accolto a braccia aperte,
come avevano promesso, i soldati rientrati nelle loro
caserme. Buona parte di loro, infatti, era stata avviata in
campi di concentramento e di sterminio in Germania.
Anche a Breno arrivarono sei militari tedeschi, tutti
uomini di una certa età tranne Bernd, un giovane che
aveva fatto domanda di entrare nell’esercito tedesco nonostante
fosse riformato perché gravemente menomato
alla mano destra. La perdita di tre dita, indice, medio ed
anulare non gli permetteva di premere il grilletto di nessun
tipo di arma da fuoco.
Erano giunti a bordo di una di quelle vetturette che avevano
proprietà anfibie e che si arrampicavano sui sentieri
montani con estrema facilità, oltre a una motocicletta
munita di sidecar che nessuno in paese aveva mai visto.
Si erano installati in tre camere dell’albergo Fumo in
piazza del Mercato, proprio vicino alla vecchia casa dei
nonni di Ernesto. A vederli sembravano dei bonaccioni,
ma gli ordini che avevano ricevuto erano feroci e dovevano
essere eseguiti senza esitazione. Avevano il compito
di individuare e catturare i partigiani, interrogarli anche
con la tortura, e quindi passarli per le armi. Avevano
l’appoggio incondizionato della Milizia Fascista, specialmente
delle Brigate Muti che avevano già avuto occasione
di dimostrare la loro ferocia.
Una delle prime operazioni di rastrellamento era avvenuta
a Bienno, dove, con l’aiuto di quel Parroco che il Cappelletti
voleva segnalare ai fascisti, erano stati accolti alcuni
fuggiaschi. Si vociferava del coinvolgimento di don
Pompeo, tanto amico dell’OVRA.
L’intervento dei tedeschi e dei loro collaboratori della
Muti era stata immediata. Furono presi degli ostaggi e
minacciati di morte, ma la reazione degli abitanti del piccolo
paese fu violenta, per quanto potesse esserlo la reazione
di uomini e donne armati solo di attrezzi agricoli contro
tedeschi e fascisti ben forniti di armi per quei tempi
ritenute sofisticate. I morti furono parecchi e anche qualcuno
delle Brigate Muti ci lasciò la pelle. Nel giro di pochi
giorni il clima della valle era completamente cambiato: da
una sonnolenta esistenza ad una situazione di guerra.
I tedeschi, con i soli due veicoli, pochi ma efficientissimi,
si spostavano velocemente da una parte all’altra della
valle e avevano il controllo delle principali vie di comunicazione.
Qualche volta si inoltravano nei sentieri che
salivano verso i monti per rapide incursioni.
Anche al bar Monte Grappa l’atmosfera era cambiata.
Non più allegri pomeriggi e serate all’insegna del vino e
delle battute salaci, ma incontri tra uomini che più non si
fidavano dei vecchi amici; dove i sospetti, magari generati
da una parola di troppo, rendevano tutti insicuri e timorosi.
Persino il farmacista era sempre triste: gli avevano
sequestrato il fucile da caccia proprio all’inizio della stagione
venatoria e non aveva più la possibilità di raggiungere
i casolari isolati per le sue avventure senza rischiare di
essere intercettato dai tedeschi. L’andare e venire dal paese
senza uno scopo evidente poteva portare a gravi sospetti.
Il coprifuoco, imposto dai fascisti, obbligava tutti ad essere
a casa alle nove di sera. E chi, come il Temperini, aveva
un letto freddo, ne era particolarmente colpito.