di Elio Marniga – Non sono un filologo; neppure poliglotta, anche se, oltre a qualche elemento di italiano, so parlare bene il lumezzanese; quello secco, nobile di Pieve; non quello strascicato di San Sebastiano o quello di Sant’Apollonio, imbastardito dalle troppe incursioni fuori territorio dei giovanotti per rapire le sode valsabbine. Così è forse la mia ignoranza, tutta nostrana, che mi fa imbufalire quando leggo, o sento, parole che né italiane né lumezzanesi sono.
La maestra Elena, bionda, bellissima e noi tutti di lei innamorati, ci aveva insegnato, facendoci stupire non poco, che noi Italiani, nati al Sud o al Nord, con tanti bei dialetti, capelli neri o biondi, eravamo tutti il prodotto finale di un gran miscuglio di genti e quindi di lingue e che l’italiano che imparavamo da lei e leggevamo sul sussidiario era l’ultima trasformazione di una lingua antica, detta latino, che era stata parlata in tutto il mondo, unificato dall’impero romano.
Più tardi professori mi spiegarono la storia della nostra lingua, cominciando da quell’indimenticabile “sao che kelle terre, per kelle fini…” per finire, ai miei tempi giovanili, con “Scendeva dalla soglia, d’uno di quegli usci…” e poco più in qua. E me la fecero amare, quella lingua, così sonora, armoniosa e dolce ed espressiva, ricca, completa ed utile sempre.
D’altra parte il progresso delle scienze e della tecnica ha richiesto l’invenzione di nuove parole, magari rubandone la radice al greco antico, per individuare, con la maggior precisione, l’oggetto di cui si tratta; anche la filosofia, pur scienza dedita a se stessa, ha avuto necessità di creare nuovi lemmi, e lì il greco è stato setacciato. E come avrebbe la nostra lingua potuto ignorare le scorribande spagnole o francesi, arabe o tedesche?
E’ una lingua viva, quindi la nostra, che sa adeguarsi ai tempi; si aggiorna di continuo e senza ricorrere a ridicole e fantasiose invenzioni come volle il becero fascismo.
Ora è la volta dell’inglese; meglio, del linguaggio americano. Da provinciali e da sudditi stiamo involgarendo la nostra lingua usando parole che hanno già nell’italiano il corrispondente, magari anche più significante. Non mi dilungo ma inviterei ad ascoltare o leggere, sull’argomento, il professor Francesco Sabatini.
Scrivo a lei, signor Direttore per lamentarmi del fatto che questo involgarimento della nostra lingua è soprattutto attuato tramite la stampa e la televisione e mi permetto di chiederle: “Perché questo accade? Perché lei accetta che un suo collaboratore, sia titolista che redattore, si presti a massacrare l’italiano, magari anche rendendosi incomprensibile a non pochi lettori?”
Da parte mia mi son ripromesso, d’ora in poi, di non acquistare più giornali che abbiano in prima pagina parole straniere che hanno corrispondente preciso in italiano; neppure leggerò gli articoli con le stesse volgarità. Battaglia persa la mia? Ne ho perse tante, ma tutte valevano la pena di essere combattute.
Gentile Direttore, la ringrazio per la paziente attenzione e le invio i migliori auguri per il lungo lavoro che l’attende nel tentativo di far adottare l’italiano a tutti i suoi collaboratori.
Cerchiamo già, nei limiti dell’abitudine, di applicare i giusti principi citati.
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