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Il patto M5S-Pd ha futuro se si radica solo a livello locale | di Claudio Bragaglio

Messo un punto fermo col nuovo Governo s’impone una riflessione. L’emergenza s’è affrontata – con Zingaretti alla guida PD – bene e con coraggio, anche se ricorrendo ad un  “testa-coda” con il M5S. Ma l’eccezione non è ancora regola. Prioritaria, quindi, è la verifica della natura politica  della alleanza con il M5S, sia per durata che per estensione anche  a livello locale.

Nervo scoperto. Anche il condivisibile Documento dei 18 Sindaci, proposto da: Sala, Del Bono, Gori…, rivendica il ruolo delle città. Ma che c’è di nuovo sotto il loro sole rispetto ad analoghi appelli, fatti da vent’anni in qua? Rispetto all’ambizione d’un “partito dei Sindaci” e con città di Centro Sinistra allora ben più numerose?

Ciò che è mancato – e temo ancora manchi – è la convinzione del valore nazionale che può scaturire da un “progetto politico” che derivi dalla rappresentanza territoriale nel Paese. In ciò vedo anche una qualche rinuncia dei Sindaci ad esercitare l’autonomia d’un ruolo politico, che comporti scelte chiare e relativi rischi. Preferendo, spesso, un tranquillo primato locale, ciascuno nel proprio villaggio delle lontane Gallie.

La conferma d’un acritico allineamento – con qualche eccezione – s’è riscontrato anche nei rapporti con il M5S. Dove, a fronte d’una equiparazione nazionale tra Lega e M5S, non mi pare si siano levate molte voci contro una visione che non aveva riscontro nei territori. Compresa Brescia. Penso a ciò che il sindaco Del Bono – intelligentemente – aveva detto con spirito di apertura sull’esperienza grillina in Loggia dell’avv. Gamba e poi sul neo candidato Ghidini. Constatando poi  nel suo successo del 54%  in città come vi fosse anche una parte del voto M5S.

Senza polemica. Ma se i Sindaci di Centro Sinistra non esprimono con coraggio l’autonomia d’un “progetto politico” che scaturisce dall’esperienza locale come possono rivendicare un ruolo nella classe dirigente nazionale? A partire dagli errori che dovevano essere impediti in questi dieci anni.

A Roma –  sull’onda demagogica dell’anticasta – han deciso una dannosa sparizione, e non già la riforma, delle Province e ci si è adeguati. Poi s’è riscoperto, ma solo dopo il Referendum della Lega, il federalismo differenziato del Titolo V della riforma costituzionale del 2001, mentre la riforma bocciata  dal Referendum del 2016  palesava tentazioni centraliste ed antiautonomiste.

Anche in passato l’allineamento acritico era un limite. Penso all’evoluzione delle “Giunte aperte”, con sindaco Trebeschi a Brescia, ma precedute nel 1973 dal “Compromesso storico” di Berlinguer e dalla “Terza fase” di Moro, del 1975.

L’unica volta in cui si rovesciò tale rapporto – tra nazionale e locale – è stata la “Brescia-contro”, dal 1990-94, con Padula-Corsini-Martinazzoli. Contro la “pax forlanian-prandiniana” tra DC e PSI, con la Giunta Corsini e, nel ’94, con l’Ulivo “ante litteram” di Martinazzoli. Con Brescia che fece una svolta di lungo periodo, mentre in Lombardia il PPI si metteva in Giunta con la Lega.

Evocare oggi una “legge elettorale proporzionale” è un suicidio. Ma non perché contraria al PD delle origini. Che peraltro molto – e per fortuna – è cambiato. Ma perché è contraria ad una migliore visione del sistema democratico, nonché alla stessa realtà delle Autonomie locali.

Con la crisi della prima Repubblica, negli anni’90, si sono introdotte riforme elettorali basate su tre principi: proporzionalità, premio di maggioranza, coalizioni di governo. Bene, per i Comuni tale legge è rimasta, dando buona prova di sé. Mentre per il Parlamento si son fatte quattro diverse  leggi elettorali: Mattarellum, Porcellum, Italicum e Rosatellum. Tali “follie di gioventù” erano dovute all’idea di sostituire il pluralismo delle coalizioni con un rigido ed innaturale bipartitismo.

La gravità d’una tale scelta s’è scaricata nel sistema politico del Paese con  una dirompente schizofrenia tra il locale ed il nazionale. In particolare per il Centro Sinistra. Con un PD nazionale, a vocazione maggioritaria e bipartitica, che demoliva nella sua corsa, presuntuosa e  solitaria, ogni alleanza politica. Mentre a livello locale ci si prodigava in senso opposto a favore delle coalizioni.

Ora con la proposta del “proporzionale” si fa una virata di 180 gradi. Da un estremo all’altro. Il tutto, ancora una volta, in contrasto con il sistema locale, che prevede un sistema proporzionale, ma con premio di maggioranza, che assicura governabilità, coalizioni ed il doppio turno. Il sistema locale – a mio parere – rimane riferimento anche per una nuova legge nazionale. E  dovrebbe trovare i Sindaci alfieri d’una tale proposta che restituisce al Centro Sinistra l’identità del Paese reale, con i suoi valori sociali, il suo pluralismo politico e culturale, la governabilità, la stabilità del Governo. Con la consapevolezza che la miglior storia politica del riformismo democratico sta nelle comunità locali e che i Sindaci possono essere i migliori interpreti del “progetto politico” d’un nuovo centro sinistra  civico. Consapevoli che se l’apertura al M5S non si radica anche nelle comunità locali e se non verrà garantita – contro ogni scissione, compresa quella di Renzi in queste ore  – l’unità plurale del PD, anche il nuovo Governo avrà vita breve. E da Salvini –  per il regalo d’una grave divisione del PD –  un riconoscente: “Deo gratias”!

* Presidente della Direzione lombarda del PD

 

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Redazione BsNews.it

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