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Il Pd bresciano e il rischio dei due passi oltre il burrone

(a.t.) Quella del Pd bresciano non è una semplice sconfitta. E’ una pesante sconfitta che rischia di trasformarsi in tragedia se il partito che fu di Renzi non adotterà a breve contromisure efficaci.

Il primo dato che emerge da queste elezioni, infatti, è che la rappresentanza del partito bresciano fuori dai confini provinciali è ridotta a un numero troppo prossimo allo zero. Due, infatti, sono gli eletti in Parlamento (non senza polemiche sui criteri di scelta), a fronte dei cinque della scorsa tornata (Corsini, Bazoli, Galperti, Muchetti e Berlinghieri). Allo stesso modo, nell’ultimo ventennio, il Pd non ha mai avuto meno di due rappresentanti al Pirellone, che stavolta sono ridotti a uno (Gianantonio Girelli) perché le virgole dei calcoli elettorali regionali hanno lasciato fuori anche Miriam Cominelli. Cancellando dalle istituzioni la gamba sinistra del partito.

Fuori dal Pd, poi, il dato è ridotto allo zero. Senza virgole. Fuori i civici e i centristi di centrosinistra (da Gitti a Sberna), fuori la sinistra, che quasi sempre in passato aveva avuto un nome tra Parlamento e Regione.

Che resta? Resta un partito con poca rappresentanza e senza una chiara leadership nazionale e locale, in cui quando si chiede ai militanti chi comanda la risposta sono una decina nomi. Comanda il segretario Michele Orlando, il cui nome è frutto di un accordo che forse non c’è più? Comandano Mottinelli e Galperti, escluso improvvisamente da Roma? Comanda il “diversamente renziano” Girelli? Comandano Bragaglio e la sinistra decimata dalle uscite e tagliata fuori da tutti i posti? Comanda Del Bono, che (giustamente) si è sempre tenuto fuori dalle logiche di partito? Comanda il deputato Bazoli? Comandano il segretario cittadino De Martin e i renziani della città? Comandano i renziani della provincia che vanno da Vivenzi a Del Barba, passando per Ratti e Groli, che – pur forti – non hanno rappresentanti tra Roma e Milano e non hanno mancato di esprimere il loro malcontento per come il partito bresciano ha approcciato gli utimi passaggi elettorali? Chi comanda?

E poi: riusciranno tutti questi nomi a mettersi d’accordo per dare una gestione chiara e forte al partito oppure prevarranno le divisioni con inevitabili ricadute sulla Loggia? Il fronte rappresentato da Girelli e la sinistra, con qualche corrente renziana, apriranno nuove prospettive e nuove maggioranze a livello locale come si vocifera da settimane? Ad oggi prevalgono le divisioni. Da Roma – con il nuovo congresso e l’annunciato passo indietro di Renzi – potrebbe arrivare un aiuto per formulare una risposta convincente e positiva a queste domande, ma non è detto.

I voti, poi, non vanno meglio. Tra il 2013 (Ambrosoli, 110mila voti) e il 2018 (Gori, 110mila) il Pd ha perso 50mila voti nel Bresciano (le preferenze sono passate da 36mila circa a 18mila, ma qui la colpa è soprattutto della congiuntura). Ed il dato della città è una magra consolazione. Qui, infatti, il Pd è il primo partito e tiene (o meglio: perde pochissimo). Ma i calcoli veri si faranno soltanto a maggio con il voto per la Loggia. E per vincere Del Bono – a fronte di un ballottaggio quasi scontato – avrà comunque bisogno di confrontarsi con l’elettorato grillino in un dialogo dall’esito incerto.

Perdere anche la Loggia (con tutto il sistema di potere che ne consegue) per il Pd sarebbe fare non uno, ma due passi oltre il burrone. E se fino a ieri questa era un’ipotesi quasi impossibile, oggi – in tempi di caos – non lo è più. Con tale paradosso ben presente il gruppo dirigente del Pd bresciano deve approcciarsi alle prossime settimane. Nella certezza che le elezioni della città sono la linea del Piave – le Termopili per evocare la storia greca – del Pd bresciano, anche a livello provinciale. Da lì, se passa il “nemico”, la guerra è persa. E per fermare gli avversari i leader del partito bresciano devono avere una sola direzione.

 

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