di Sandro Belli – È una vicenda di cui conosco più o meno i particolari ma che va raccontata. Non vuol essere una proposta urbanistica e neppure esempio definito.
Ahmad Sarabhai Darbar, magnate indiano Sikh noto in oriente per generosissimi contributi alla costruzioni di templi del suo credo religioso, anche in piccole cittadine o villaggi,decise di edificare un tempio di grandi dimensioni in Italia, per permettere ai suoi concittadini emigrati di professare il proprio credo. Fece demolire un albergo in disuso e, nel terreno adiacente, acquisto’ un vecchio capannone diroccato che da anni occupava un vasto terreno (non è noto se per la demolizione dell’albergo il magnate sia atto stimolato dal presidente regionale di Federalberghi che saggiamente invita a questo tipo di demolizione). Due demolizioni – recupero di ampio suolo – rinnovo e risveglio dell’area.
In un primo tempo l’operazione venne ostacolata da varie parti. Poi, in breve, tutto mutò. L’Amministrazione pubblica indecisa comprese che l’etnia indiana, per natura pacifica e disponibile era un ottimo bilanciamento culturale e sociale ad altre comunità portatrici di credi intransigenti e violenti. I cittadini dei territori circostanti videro rifiorire un’area in degrado, nella quale al grigiore del passato si andava sostituendo un cascata di colore musica e spiritualità. La nostra Chiesa in tutte le sue gerarchie, prima perplessa, si rese conto che una religione “concorrente” ma così colma di devozione e spiritualità, anziché guastare in qualche modo le manifestazioni di fede cristiana, avrebbe risvegliato il senso religioso.
Sul retro del tempio il salone intitolato al mahatma Gandhi scatenò un progressivo interesse per i temi della pace, della libertà nel mondo e del rispetto del creato. Qualche artigiano della zona riprese il lavoro, collaborando alla manutenzione e ai servizi dell’ intero centro religioso.
Un altro risultato inaspettato: apparve finalmente a tutti evidente quanto fosse sciocca la forzata integrazione di etnie e culture, da molti indicata come la giusta soluzione ai problemi della convivenza, ed invece quanto fosse produttivo, stimolante ed arricchente il mantenimento delle diversità in ogni campo ed in ogni attività. Musica, arte, architettura, religione, capacità manuali e culturali, tradizioni, ognuno se stesso,nel massimo rispetto dell’altro. Unico elemento comune: il rispetto assoluto della legge.
Così tutto funzionò ed oggi funziona ottimamente. Il vecchio quartiere è rinato, non solo nei riti religiosi della domenica ma nella vita quotidiana sotto il segno del Kirpan. Non so se sia una storia ripetibile a Brescia, in via Industriale / via Morosini (nel quartiere di Campo Fiera), ma certamente è un faro che indica una strada di pace, nel grigiore quotidiano.
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