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Perché dire no all’ennesimo aumento dell’Iva

di Andrea Tortelli – Qualcuno, dalle parti di Roma, sta ipotizzando di scambiare l’aumento dell’Iva con il taglio del cuneo fiscale. O meglio: di sacrificare le partite Iva – vere o finte che siano – sull’altare di un presunto sviluppo.

Sgombriamo subito il campo dalle strumentalizzazioni politiche. Destra e sinistra non c’entrano. Il problema è culturale: viviamo in un Paese in cui la tassazione sul lavoro e sulle libere professioni è a livelli record (il 22 per cento contro il 21 per cento della spagna, il 20 della Francia e uil 19 della Germania) e nessun governo ha mai invertito la rotta. Anzi.

Il primo gennaio 1973, l’aliquota ordinaria, quella applicabile alla maggior parte di beni o servizi, era il 12%. Salita al 14% nel 1977, al 15% nel 1980, al 18% nel 1982, al 19% nel 1988, al 20% nel 1997, al 21% nel 2011, al 22% nel 2013.

“Lo scambio”, ha spiegato candidamente il ministro Pier Carlo Padoan in un’intervista al Messaggero, “è una forma di svalutazione interna che beneficia le imprese esportatrici, che sono anche le più competitive, le quali non possono più avvantaggiarsi del tasso di cambio”. Insomma: i semplici cittadini, le libere professioni (e tutti i loro clienti) dovrebbero pagare una nuova tassa quotidiana per sostenere l’export, con ovvie ricadute sui consumi e sul mercato interno.

L’aumento dell’Iva, poi, andrebbe a incidere in maniera uguale su ricchi e poveri, di fatto penalizzando i secondi. In barba a quel principio costituzionale (articolo 53) per cui il sistema tributario dovrebbe essere basato su “criteri di progressività”.

I ricchi consumano di più e quindi pagheranno di più, obietterà qualcuno. Ma costoro dimenticano che a sostenere il mercato interno sono soprattutto coloro che “consumano” la gran parte del proprio stupendio: il ceto medio, o ciò che ne resta.

La misurazione più corretta degli effetti di un aumento dell’Iva, dunque, si ottiene calcolando l’incidenza percentuale dell’aumento dell’Iva sulla retribuzione netta di un “capo famiglia” e la Cgia di Mestre ha già fatto i calcoli, stabilendo che le più penalizzate sono (ancora una volta) le famiglie numerose. Assurdo.

L’altra cosa inquietante è il principio di fondo, il retropensiero che quasi sempre informa proposte come quella di Padoan.

Due sono le idee di fondo che in Italia si pongono sempre quando si parla di Iva. La prima è che – secondo la vulgata ed evidentemente anche secondo il legislatore – “tanto le partite Iva evadono” (dunque tanto vale tartassarle o tassare all’inverosimile i beni/servizi che sfuggono al mercato nero). Vero, in molti casi. Ma l’aumento spropositato delle imposte (che in alcuni casi arrivano al 60 per cento) non aiuta certo a invertire il fenomeno.

La seconda motivazione è che le Partite Iva – a differenza dei dipendenti pubblici o dei docenti – non esprimono una coscienza collettiva (“di classe”, si sarebbe detto qualche anno fa) e quindi non contano niente al momento del voto. Tradotto: è più facile aumentare le tasse a loro che ad altre categorie che ad oggi godono di maggiori privilegi, come i pensionati di lusso.

Inquietante. E’ inquietante che abbiano ragione i Padoan di turno e tutti i governi italiani degli ultimi decenni: in democrazia gli assenti hanno torto per definizione.

 

 

 

 

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Redazione BsNews.it

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