(a.tortelli) “Dopo aver letto il libro, mi restano due principali domande. Domande che ho anche posto all’autore durante la prima presentazione e che ancora attendono risposta. A che scopo Calzoni ha scritto questo libro? E, ancora, cosa ne direbbe Luigi Lucchini se fosse ancora in vita?”. A porre i quesiti è l’ex deputato bresciano Aldo Rebecchi, che accetta – e rispedisce al mittente – la provocazione lanciata da Ugo Calzoni con il suo ultimo scritto pubblicato dalla Compagnia della Stampa: “Imperi senza dinastie”. Un libro che ripercorre le tappe dell’avventura di una delle più importanti dinastie dell’acciaio bresciano e della storia imprenditoriale della Leonessa senza tralasciare passaggi duri: dalle “fughe” all’estero con i lingotti d’oro alle battaglie contro il sindacato, dalla scarsa attenzione alla società civile, al negativo epilogo nel passaggio di testimone ai figli. Vicende che Rebecchi ha vissuto da testimone diretto, come segretario generale della Cgil (1980-1987) poi come parlamentare. E che oggi analizza da un punto di vista quasi opposto, quello di ponte di collegamento tra le forze vive del mondo produttivo (lavoratori e imprese) e la Loggia.

D – Che le ha lasciato il libro?

R – E’ un libro forte, e rivela un Calzoni inedito. Di lui si conosceva la pesantezza del giudizio nei confronti del sindacato: poche volte a ragione, spesso sopra le righe. Non erano note, almeno a me, le sue critiche al mondo imprenditoriale bresciano, all’azienda per cui lavorava e alla famiglia che la gestiva. Nelle oltre 200 pagine emergono rilievi fortemente critici nei confronti di un patriarca incapace di gestire la sua successione e molto poco attento alla società bresciana.

D – Le giro le sue domande. Perché Calzoni ha scritto questo libro? Lucchini che ne avrebbe pensato? Un’idea se la sarà fatta…

R – Lucchini? Mah, e ci metto tre “acca” alla fine. Non sono affatto certo che ne sarebbe felice. Quanto alle ragioni di Calzoni, probabilmente aveva qualche sassolino da togliersi dalle scarpe. E forse l’incipiente vecchiaia l’ha reso più oggettivo su alcune questioni: sul sindacato e sulle imprese. Calzoni parla di imprenditori che non pagavano contributi e compravano oro a lingotti per poi negare mense e spogliatoi dignitosi ai lavoratori. Avrebbe potuto farlo già allora.

D – Come sottolinea lei, però, il giudizio nei confronti del sindacato è rimasto durissimo. Nel libro si racconta un Lucchini che “investiva in scioperi” contro una Cgil che lo bollava come “padrone nemico dei lavoratori e dei loro diritti”. Chi aveva ragione?

R – Col senno di poi alcune nostre battaglie di quel periodo si sono rivelate sbagliate e quindi perdenti. Ad esempio su Bisider sbagliammo a scegliere l’occupazione a oltranza: 45 giorni da cui noi uscimmo stremati, mentre Lucchini ne trasse solo vantaggio, perché aveva acquistato l’azienda a costo zero, in conto Tfr, e in quel lasso di tempo poté studiare la strategia di “ristrutturazione” senza nemmeno pagare gli stipendi. Quando la Bisider fu chiusa, poi, il guadagno della vendita dei terreni, mi pare, fu superiore al Tfr dovuto. Insomma: fu una battaglia generosa ma sbagliata. Ma va comunque detto che il contesto era fatto da condizioni di lavoro a volte insopportabili e diritti spesso non rispettati. Le proteste erano giustificate, la forma a volte no.

D – Lei è stato un dirigente del sindacato. Oggi si occupa prevalentemente dei rapporti con le imprese, del loro stato, della loro salute, che poi è anche quella di chi vi lavora. Rivaluta la figura di Lucchini?

R – Si impone un giudizio articolato. Mi domando cosa sarebbe accaduto all’epoca se si fosse saputo che Lucchini guadagnava anche 100 milioni di lire al giorno e contemporaneamente non concedeva spogliatoi dignitosi e mense decenti ai suoi operai. Le rivendicazioni sarebbero finite sotto un’altra luce. Le ombre nell’avventura di Lucchini non mancano. Ma per il Paese il saldo della sua figura è sostanzialmente positivo. Non va dimenticato che, dopo una prima fase di scontro, Lucchini si avvicinò molto al sindacato.

D – Nel libro questa svolta emerge poco. Spicca invece una sorta di contrapposizione del successo di Lucchini con la fine – quasi simbolica – dell’avventura imprenditoriale di Oddino Pietra, bollato come troppo accondiscendente con il sindacato.

R – Pietra è stato il re degli industriali siderurgici bresciani di quegli anni. E gli va reso l’onore delle armi. Lucchini agiva su un terreno consolidato, Pietra su campi nuovi. La fine del suo impero non è certo dovuta al sindacato, che pure può aver fatto degli errori, bensì all’investimento troppo impegnativo della Seta di San Zeno e Roncadelle, che non è arrivato a compimento nei tempi giusti.

D – Ha citato la lucrosa vendita dei terreni della ex Bisider. Calzoni dice anche che all’epoca fu avanzata al sindaco la proposta di favorire una convenzione tra i proprietari delle aree industriali del comparto Milano per favorire un disegno urbanistico comune. Se ne parla da decenni a Brescia. Fu un’occasione persa.

R – All’epoca si discusse molto dell’ipotesi che il Comune imponesse ai proprietari di cedere tutte le aree industriali dismesse per poi rimetterle sul mercato a prezzi calmierati. Senza dubbio fu un’occasione persa: lo sviluppo dell’area non fu omogeneo e i successivi guadagni per chi vendette furono elevati.

D – A proposito di errori. Nel libro Calzoni sottolinea anche il repentino cambio di posizione dell’allora sindaco Corsini sui finanzieri d’assalto come Chicco Emilio Gnutti…

R – Quella della finanza e dei cosiddetti capitani coraggiosi è stata un’ubriacatura collettiva: della società civile, della politica e anche della sinistra. Non siamo perfetti: un bagno di umiltà per riconoscere anche i propri errori è sempre cosa giusta.

D – Torniamo alla sostanza del libro. Nei capitoli emerge un’immagine degli imprenditori dell’acciaio fatta di tanta furbizia, talvolta ai limiti della legalità. Ma anche di scarso interesse per la società che li circondava e per il mondo dell’arte… Gli imprenditori bresciani sono ingrati?

R – Allora gli imprenditori agivano quasi in una situazione di anarchia. Di certo alcuni avrebbero dovuto e potuto fare di più di fronte a richieste sindacali che talvolta non riguardavano grandi questioni, ma faccende “minime” come i servizi igienici, il vestiario, la mensa e la salute sui posti di lavoro. Ma anche la società bresciana non è stata riconoscente nei confronti dei suoi imprenditori.

D – Si spieghi meglio…

R – Nel libro Calzoni elenca i presenti a una riunione di giunta di Aib: su 25 ben 17 erano a capo di aziende che oggi non esistono più. E’ una tragedia che oggi nel perimetro cittadino siano rimasti solo Iveco, Lonati, Alfa Acciai, Ori Martin e poco altro. E questi presìdi vanno difesi. Certo alcune questioni non sono negoziabili, come la salute, ma per il resto dobbiamo evitare di mettere perennemente in conflitto la situazione ambientale con quella produttiva. Spesso contro le fabbriche c’è una sorta di preconcetto: nessuno le vuole vicino. Ma proviamo a immaginare cosa sarebbe Brescia senza fabbriche. Solo con Santa Giulia o con il Teatro Romano non andremmo molto lontano.

D – Chiudiamo con il titolo del libro. Poche imprese bresciane – scrive Calzoni e dicono i fatti – sono vissute oltre la seconda o la terza generazione rispetto a chi le aveva fondate. In particolare Calzoni sembra contrapporre con forza l’avventura di Giuseppe Lucchini a quella di Luigi…

R – A proposito del passaggio di testimone alla Lucchini emerge un quadro inquietante. Calzoni descrive una dinamica in cui si utilizza la casa madre come una mucca da mungere a tutti i costi. I dirigenti vengono rimossi e le funzioni più significative, come gli acquisti, la finanza, i trasporti e il vestiario, vengono esternalizzate a società che fanno capo alla famiglia. Nessuno si occupa più attentamente della produzione. Con il risultato che alcuni si arricchiscono mentre l’azienda impoverisce velocemente. Il tutto con grandi passaggi di nero. Se allora si avesse avuto la percezione di questo, anche la contestazione del sindacato sarebbe apparsa diversa. Calzoni disvela qualcosa di cui si sussurra. E non mi risulta che nessuno gli abbia mosso contestazioni fino ad ora.

D – Sì, ma – tornando al titolo – la colpa è dei padri o dei figli?

R – In questo caso la colpa sembra essere del padre. Perché un grande imprenditore dovrebbe essere sufficientemente illuminato da costruirsi un erede o un sistema di management adeguato. Anche il declino della Lucchini non è imputabile solo a chi ha preso in mano poi le redini dell’azienda. Il modello bresciano del passare l’impresa da padre a figlio ha funzionato subito dopo la Guerra. Poi non sempre. Laddove le aziende sono riuscite a separare la gestione dalla proprietà, affidando la prima a manager capaci, il risultato è stato importante. Penso a Sabaf e Gefran, ad esempio. Dove invece ha prevalso l’amore paterno, a volte, si sono create situazioni critiche che, in alcuni casi, hanno portato anche al dissolvimento degli “imperi”.

 

 

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Redazione BsNews.it

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