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Il Vittoriano e Brescia: orgoglio e imbarazzi

Nel 2011 abbiamo festeggiato, oltre ai 150 anni dell’Unità d’Italia, i 100 anni del Vittoriano, il monumento che a Roma, a piazza Venezia, rappresenta simbolicamente tale Unità, conservando le spoglie del Milite Ignoto e ospitando alcune delle più solenni celebrazioni della nostra Repubblica. Forse non molti sanno che quel grande ammasso di marmo nel cuore della capitale sorse originariamente come memoriale a Vittorio Emanuele II, tanto che si sarebbe dovuto chiamare “Emanuelion” (mentre ora è noto ai più come “Altare della Patria”). L’idea del monumento venne infatti nel 1878, alla morte del re sotto cui si era compiuta l’unificazione del Paese.

La nascita del Vittoriano fu segnata fin da subito da polemiche, liti e scandali, cosa che da noi avviene quasi immancabilmente, da sempre. Anzitutto il concorso di progettazione: all’inizio vinse un francese, Henri-Paul Nénot, ma non parve bello che il monumento all’Unità d’Italia fosse costruito su disegno di uno straniero, e così si trovò il modo di eliminare con una scusa il povero architetto transalpino. Nel 1882 si fece un nuovo concorso, e questa volta trionfò un compatriota, Giuseppe Sacconi. Ma i guai non erano finiti, perché il suo progetto dovette comunque adattarsi a molti imprevisti: scoperte archeologiche, problemi statici causati dall’instabilità del terreno, insufficienza di fondi, politici determinati a “piazzare” artisti loro protetti, impicciandosi nel cantiere e nelle fasi di costruzione. Finché si arrivò nel 1911 a una frettolosa inaugurazione (non si poteva certo mancare il cinquantenario dell’Unità), mentre l’effettiva conclusione dei lavori sarà solo negli anni Venti.

A esser sinceri, il Vittoriano è stato a lungo disprezzato, criticato, sbeffeggiato, definito come una “macchina da scrivere” o una “torta nuziale”. Da qualche tempo, nella critica e negli studi, è in atto una rivalutazione critica dell’architettura del monumento, che è tornato anche a essere popolare grazie all’impegno di Ciampi durante il suo settennato di presidenza della Repubblica. Inutile nascondersi, però, che ancor oggi i romani perlopiù odiano questo “intruso”, che in effetti sembra inserito a forza tra il Campidoglio, i fori e il Colosseo: un elemento estraneo in un contesto urbanistico con il quale il Vittoriano, a essere onesti, c’entra come i cavoli a merenda. Anche il biancore del marmo con cui fu costruito il monumento stride molto e suona dissonante in una città edificata soprattutto con la calda pietra di Travertino, che vira dal color latte al giallognolo e all’ocra. Ma quel marmo è motivo di vanto per noi bresciani, perché si tratta del “botticino”, che comprensibilmente abbiamo celebrato con accorato campanilismo in questo 2011.

A voler essere onesti, non si può omettere di dire che la scelta del “botticino” per il cantiere del Vittoriano fu, alla fine dell’Ottocento, un vero scandalo, fonte di infinite polemiche: perché fu sponsorizzata da un politico di primo piano come Giuseppe Zanardelli, bresciano, e amico del proprietario della ditta di escavazione che aveva sede a Rezzato (i conflitti d’interesse non sono una novità…). Una faccenda alquanto imbarazzante, anche per motivi economici, oltre che estetici e di opportunità, visto che la pietra doveva percorrere 600 chilometri sui treni del regno per arrivare a Roma, mentre ricorrendo a cave laziali o umbre si sarebbe certo risparmiato in termini di trasporti. E inoltre la produttività del bacino marmifero di Botticino, Rezzato e Mazzano all’epoca si rivelò inferiore alle richieste del cantiere, cosicché si verificarono molte agitazioni e sommosse da parte degli scalpellini impegnati nell’edificazione del monumento: motivo principale delle proteste era proprio l’insufficiente approvvigionamento di marmo da parte delle cave bresciane, con la conseguente sospensione dei lavori (e quindi degli stipendi per i poveri operai romani) durante lunghi periodi, a causa della mancanza di materia prima.

Paolo Bolpagni

storico dell’arte

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Redazione BsNews.it

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