La “brescianità” nell’arte, tra sconfitte e speranze

Non ho mai amato il termine “brescianità”. Credo che non significhi molto. O comunque, se esprime qualcosa, ha a che vedere con un’asfittica esaltazione del provincialismo, di un “mondo che fu” idealizzato in un falso ricordo. Un atteggiamento, peraltro, che, come tutti i provincialismi, sfocia spesso nell’entusiasmo indiscriminato tributato a qualsiasi novità proveniente da fuori, salutata di volta in volta come “straordinaria”; e, all’inverso, nella rivendicazione delle origini locali di ogni persona che, ignorata qui, una volta uscita dal guscio abbia “sfondato” altrove.

Se invece che di “brescianità” vogliamo parlare di una serie di aspetti ricorrenti che caratterizzano molte tra le più valide personalità prodotte da questa terra, ieri e oggi, ci imbatteremo in qualità ben precise: concretezza, dedizione, impegno, grande inventiva. Anche nel mondo nell’arte.

Nell’agosto 2010 venne a mancare Bruno Passamani, che bresciano non era (era nato a Tenna in Valsugana, e aveva poi studiato a Roma e a Padova), ma alla città diede molto, dirigendo i Civici Musei dal 1978 al 1992. Era un uomo raro, da citare sempre con deferenza e gratitudine. Nell’articolo scritto in occasione della sua scomparsa Fausto Lorenzi sintetizzò bene la posizione di Passamani riguardo a quanto si diceva sopra, ricordando com’egli avesse messo in guardia dall’idoleggiare quel mondo di provincia sui cui si è fondata tutta una rivendicazione di valori di “brescianità” come vittoria della “piccola patria”. In realtà, la storia dell’arte a Brescia nel Novecento è la storia di una serie di brucianti sconfitte: negli anni venti-trenta del novecentismo e dell’astrattismo, sostenuti da grandi personaggi come Pietro Feroldi e Carlo Belli; negli anni settanta la dispersione della straordinaria collezione di Guglielmo Achille Cavellini, lasciata a lungo in deposito a Santa Giulia ma di fatto rifiutata dalla città e dai suoi amministratori con la loro indifferenza. E la sconfitta della mancata nascita di un museo d’arte moderna e contemporanea, che Brescia sconta tuttora come una grave mancanza. E invece a vincere furono quei piccoli maestri locali intransigenti nel loro decoro artigianale, chiusi in una professionalità onesta ma datata, che affossò la vita artistica della città – nonché il mercato locale – in un vicolo cieco.

Ora per fortuna molte cose sono cambiate, e altrettante stanno cambiando. Ci sono stati i Vezzoli e i Buvoli, partiti per glorie statunitensi e planetarie. E ci sono giovani che, restando a Brescia, o decidendo di andarsene, stanno comunque portando avanti quelle buone qualità di serietà e bravura che enumeravo prima come caratteristiche autentiche della Brescia migliore. Vorrei citarne molti, ma mi limito a due, sapendo di far torto ad altri. Sono entrambi trentenni, in forte ascesa e in fase di ribollente attività ed evoluzione, e si chiamano Melissa Provezza e Marco La Rosa. Quest’anno una ha esposto a Venezia, alla Biennale (facendo bene nonostante la curatela dell’imbarazzante Sgarbi), l’altro ha trionfato al Premio San Fedele di Milano. In bocca al lupo!

* Storico dell’arte

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Redazione BsNews.it

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