di Alessandra Tonizzo – Arrivo a Butizì che il sole è alto, il clima quello di uno spaghetti western d’altri tempi, con la polvere che si alza come tumbleweed, le gente chiusa in casa e piccole fabbriche sbiadite al posto dei saloon. Il paese del marmo, dei calzifici, del vino doc. Lo voglio guardare da vicino, scrutare da dentro, sentirlo descrivere da chi lo vive e dimenticare nozioni alla wikipedia. Stranamente, nessuno mi parlerà della dura pietra venata, di collant o nettari alcolici: la fotografia di chi abita questa zona pedemontana è oltremodo lontana dagli stereotipi, da tutte le cartoline che possiamo trovare. Si respira aria di solitudine, un’apatia che tira il giorno a sera. Tolti rumorosi cantieri posticci qui e là, gironzolare tra le vie strette e vedere pezzi di cielo blu tra le piccole case è piacevole. Botticino Sera e Mattina si somigliano, anche se la sensazione è che il paesaggio si spopoli man mano ci si allontana dalla città. I negozi sono pochi, il commercio lento. Improvvisati “torno subito” appiccicati alle vetrine avvisano che i negozianti sono al bar, tengono d’occhio le proprie botteghe dall’altro lato del marciapiedi, il caffè in mano. Seduta su una panchina, vengo a conoscere una leggenda che spiegherebbe il tenace campanilismo tra due delle tre frazioni: una calda notte dei primi del ‘900, il piccolo comune di stanza a Sera venne trasferito a Botticino Mattina, pezzo per pezzo, sotto la luna piena. Mentre immagino ometti baffuti e donne nerborute lavorare nell’oscurità, m’inerpico verso San Gallo tra tornanti senza segnaletica. Passo diversi agriturismi arroccati, incontro un ristoratore sfiduciato e finisco per sbocconcellare un croissant, presa dalla nostalgia dei suoi racconti sullo sfondo di tovaglie a quadri e formaggiere plastificate. Mi rimetto in moto con l’ansia del calar del sole su strade a strapiombo, penso ai ragazzi che vivono qui in un’età in cui non ci si sazia di bei tramonti e frasche fresche. Saluto Botticino e la sua gente, li lascio ai propri laconici pensieri, ad una dolce china che sa di blues.
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