Occupazione giovanile, servono programmazione e capacità di adattamento

 I dati sulla disoccupazione giovanile in Italia sono sempre più allarmanti e ci pongono di fronte ad una emergenza sociale di portata storica.

E’ del tutto evidente che la situazione economica stagnante non fa che appesantirne gli effetti ma, al tempo stesso, viene da chiedersi se vada considerato un nuovo approccio da parte delle istituzioni scolastiche verso il mondo del lavoro.

Gli strumenti che continuano ad essere determinanti per trovare un lavoro sono: la formazione, (che non può più limitarsi a quella di base e che anche in presenza di una laurea deve essere accompagnata da una specializzazione o master, che accrescano nello specifico le competenze), ma soprattutto la richiesta del mercato.

La logica dei Paesi anglosassoni, dove ad una richiesta di assunzione viene posto il quesito di “quale sia il vantaggio da subito per l’azienda”, sta diventando nell’ottica della globalizzazione di uso sempre più comune.

Ecco quindi che il rapporto tra sistema scuola/formazione ed impresa deve poter essere più sinergico, soprattutto nella fase programmatica.

Servono medici, ragionieri, falegnami, ma migliaia di laureati in Scienze della Comunicazione, diplomati al Liceo Scientifico e formati Estetisti sono in cerca di una prima occupazione che il mercato non richiede. Però, se alla fine della scuola dell’obbligo, qualcuno avesse illustrato a questi giovani, oltre che le possibilità di formazione, le effettive future possibilità di occupazione, forse non avremmo sconfitto la disoccupazione giovanile ma, certamente, avremmo contribuito ad aumentarne le probabilità e potenzialità occupazionali.

Serve quindi offrire, al momento della scelta del percorso formativo, strumenti aggiornati di programmazione, che sappiano leggere e prevedere scientificamente quante e di che tipo saranno le figure professionali richieste dal mercato del lavoro nel prossimo decennio.

Programmare, quindi, e al tempo stesso avere il coraggio di modificare uno stereotipo tutto italiano che vede una sorta di incompatibilità tra formazione di alto livello e lavori manuali, quasi a voler segnare una linea di confine tra lavori “qualificanti” e lavori “qualificati”.

I sacrifici di tanti operai per far studiare un figlio, si manifestano al tempo stesso in un delinearne consapevolmente il perimetro di occupazione, escludendo a priori un lavoro dove non ci si debba” sporcare le mani”.

Se, da un punto di vista psicologico, il comportamento di tanti genitori post fordisti è comprensibile, non trova ragion d’essere in una economia completamente diversa da quella del secolo scorso, i cui i tempi di trasformazione sono sempre più rapidi e radicali.

Vale la pena quindi di riconsiderare quelle attività manuali, che hanno fatto grande il nostro Paese non solo nel Rinascimento, ma anche ai giorni nostri e che rischiano di scomparire se non tramandate nella loro essenza del “saper fare”?

Come al solito la risposta anche se non condivisibile, ma in tutta la sua crudezza, la darà e continuerà a darla il mercato.

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Redazione BsNews.it

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