Tre compagni di avventura
di Renato Borsoni – Ve lo ricordate quel momento di Amarcord di Fellini in cui, arrampicato su un grande albero
in mezzo alla campagna, quellattore strampalato e surreale che era Ciccio Ingrassia, nei panni del matto del villaggio, ripeteva ossessivamente al vento a voce spiegata il suo grido senza risposta:
Voglio una donnaaaa? Ecco, in queste giornate trascorse in ospedale per rimettere in sesto qualche scricchiolio, avevo nella camera vicina un paziente che per molte ore al giorno, di prima mattina e nel tardo pomeriggio, faceva la stessa cosa: non chiedeva la donna, ma un aiuto al suo dolore e alla sua solitudine con lo stesso identico suono (anche le note, credo) del personaggio felliniano appollaiato su quella pianta. Anche la mattina del mio ritorno a casa, quel grido monotono, inesorabile, mi accompagnava fino alluscita. Ho avuto due compagni di camera. Uno era un signore rimasto solo, seguito a domicilio da una cooperativa di assistenza sociale. Era stato ricoverato altre nove volte nello stesso reparto negli ultimi anni. Uno di casa. Quando era solo con me, per le poche parole che ci scambiavamo durante il giorno, sembrava tranquillo. Ma quando arrivavano gli infermieri ad accudirlo incominciava la sua esibizione e raccontava le proprie mirabolanti vicende forse sempre le stesse – . Per esempio, era arrabbiatissimo con Pippo Baudo perché gli aveva ucciso sua sorella con una pistolettata; oppure che suo figlio lavorava in Germania in una grande fabbrica di proprietà della famiglia. Un giorno, a mio figlio che chiacchierava con me del campionato di calcio, disse con perfetta nonchalance di essere proprietario di quattro giocatori del Bari (sua nonna era barese) ma che ora aveva deciso di venderli. A un euro ciascuno. Ma voleva tornare a casa: e ci riuscì con una prepotenza disarmante. Al suo posto, subito, fu sistemato il vicino delluomo che gridava alla luna, che fu lasciato solo. Il nuovo arrivato, silenzioso e riservato, si sedette davanti a me e la sera, con le lacrime che non gli uscivano dagli occhi gonfi, mi raccontò la sua vita pesante di lavoro e ricca di soddisfazioni familiari: solo che adesso, quando pensava di godersi tranquillamente la sua pensione, era finito in ospedale. Gli ho chiesto letà e lui, con un candore che prima mi ha stupito e poi quasi quasi mi ha fatto arrabbiare, mi ha risposto: novantasei.
Chissà chi avrà preso il mio posto.
DA IL QUOTIDIANO IL BRESCIA – 20 NOVEMBRE 2009